Soundtrack: Wilco – War On War [Here]
Perché ho taciuto finora?/ Perché pensavo che la mia origine, / gravata da una macchia incancellabile,/ impedisse di aspettarsi questo dato di fatto / come verità dichiarata dallo Stato d’Israele /al quale sono e voglio restare legato. / Perché dico solo adesso, / da vecchio e con l’ultimo inchiostro: / La potenza nucleare di Israele minaccia / la così fragile pace mondiale? / Perché deve essere detto / quello che già domani potrebbe essere troppo tardi
– Günter Grass, Quello che deve essere detto
«Israele deve porre fine alle violazioni dei diritti umani che sono legate alla presenza delle colonie». A redigere questa affermazione non ci ha pensato nessuno dei ragazzi che popolano i centro sociali nostrani (i quali, bisogna dirlo, denunciano la situazione palestinese da svariati decenni attraverso vari comitati e associazioni), né tanto meno da studentelli di liceo inebriati da buonismo spicciolo o da illusioni ideologiche, ne da giornalisti in cerca di una qualche insperata fama: è il cinquantesimo punto di un’inchiesta condotta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, a firma del giudice Christine Chanet, membro della commissione per i diritti umani dell’ONU. L’inchiesta è stata resa nota qualche settimana fa, ma nessun media “mainstream” italiano sembra essersene interessato, nonostante le gravi implicazioni, dato che siamo nel pieno di una campagna elettorale combattuta a colpi di editoriali qua e là, per poter spostare qualche votarello sulla schedina elettorale.
L’inchiesta è strutturata in varie parti e tocca diversi punti, dalla libertà di movimento fisico all’impatto economico delle azioni discriminatorie messe in atto da coloni israeliani con il silenzio collaborazionista del governo. Non è un caso che la parte più corposa del rapporto è quella che riguarda l’ “Uguaglianza e la discriminazione”: cinquantasei paragrafi a fronte di un totale di centodiciassette, praticamente la metà di tutto l’elaborato.
L’area si divide in vari sottogruppi come ad esempio quello delle restrizioni sul diritto all’acqua, nel quale si può leggere: «informazioni e testimonianze confermano l’impatto dell’espansione degli insediamenti sul diritto all’acqua dei palestinesi tra cui […] l’alta discrepanza nella distribuzione delle risorse idriche per Palestinesi e coloni». C’è spazio anche per riflessioni sulla libertà di espressione: «i ricercatori sono stati informati del fatto che politici israeliani, studiosi e membri della società civile che esprimono critiche alla politica degli insediamenti, vengono screditati agli occhi dell’opinione pubblica. Ad esempio vengono rivolte particolari critiche ai combattenti veterani che hanno servito nelle forze armate israeliane nei territori occupati e che dissentono con la linea ufficiale della classe dominante». Un altro paragrafo degno di menzione è quello relativo all’impatto economico che hanno avuto gli insediamenti: «il settore agricolo, considerato la pietra angolare dello sviluppo economico palestinese, non è stata in grado di svolgere il suo ruolo strategico a causa della espropriazione dei terreni e il divieto di accesso per gli agricoltori alle zone agricole, alle risorse idriche e ai mercati interni ed esterni. Ciò ha portato, dal 1967, ad un calo costante della quota della produzione agricola, del PIL e dell’occupazione».
Alcune delle affermazioni nel rapporto sono di un certo peso ed è impossibile qui sintetizzare tutti gli aspetti di una ricerca che evidenzia come i diritti umani vengano sistematicamente violati dalla politica di insediamento del governo israeliano. Vorrei evidenziare però una parte che mi ha lasciato impressionato e che potrebbe essere rappresentativa e simbolica di tutta la faccenda: «la ricerca effettuata rileva inoltre l’impatto della violenza e delle intimidazioni sulla vita e sulle condizioni dei contadini palestinesi: viene impedito ai palestinesi l’accesso alle terre […] con la violenza e l’intimidazione, bruciando, sradicando e distruggendo le colture palestinesi; i coloni, quindi, si appropriano della terra e danno l’avvio ad una propria produzione; infine costruiscono recinzioni sui terreni agricoli palestinesi».
La coltivazione delle olive è una delle fonti primarie di sostentamento della popolazione palestinese e dalla seconda intifada ad oggi sono stati bruciati ben tre milioni e mezzo di alberi d’ulivo [1]. Al di là del mero dato numerico proverei un attimo ad immaginare cosa vuol dire vedersi bruciare la propria terra. Mettiamoci per un attimo nei panni del contadino, di chi coglie le olive, di chi ne produce olio e ne fa il suo sostentamento per generazioni, tramandando di padre in figlio le tecniche del mestiere di agricoltore, di chi fa di quella professione la sua casa; infine proviamo anche solo ad immaginare l’odore di bruciato provenire dalle terre, dai tronchi che magari abbiamo piantato con le nostre mani, dal fuoco che avviluppa e distrugge ciò che di fertile si era contribuito a far nascere; subito dopo vediamo altri coloni che ne recintano il perimetro, togliendoci contemporaneamente l’occupazione e il sostentamento, appropriandosene grazie al silenzio del governo: se vi lasciassero solo cumuli di macerie da cui poter ricavare pietre e sassi, voi non gliele lancereste contro, magari urlando tutto il vostro sdegno?
Nel rapporto si ringrazia anche «il prezioso contributo dato dai membri della società civile israeliana per mettere in evidenza la negazione dei diritti umani ai palestinesi a causa della presenza degli insediamenti», a dimostrazione del fatto che non tutta la popolazione è favorevole allo status quo e alle politiche di insediamento, cioè alla colonizzazione coatta che viene esercitata da parecchio tempo dal governo israeliano nei confronti della resistente comunità palestinese.
Si legge ancora, nella parte conclusiva del rapporto che «Israele deve, ai sensi dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, cessare tutte le attività di insediamento senza precondizioni. Inoltre, deve immediatamente avviare un processo di ritiro di tutti i coloni dalla OPT [Occupied Palestinian Territory]». Molti dei dibattiti sulla questione Israeliano-Palestinese vertono su chi si sia insediato prima sul territorio. Questa continua diatriba su chi ha tagliato per prima il traguardo della terra fertile non può essere un parametro di giudizio. E’ nato prima l’uovo o la gallina? E’ davvero importante saperlo? Mentre ci interroghiamo su queste facezie, l’odore di bruciato dei campi di ulivo palestinesi sale in alto, talmente in alto che potrebbe entrare dalle nostre finestre.
L’intera inchiesta è scaricabile dal sito dell’ufficio dell’alto commissariato per i diritti umani dell’Onu (OHCHR), precisamente qui.
[1] Secondo una fonte del Ministero della Agricoltura Palestinese>