Quella mattina Mohamed Bouazizi pensava di aver comprato la migliore frutta da rivendere nelle strade di Sidi Bouzid, tanto che la sera prima aveva detto alla madre, ”con questa frutta ti comprerò un regalo, domani sarà una grande giornata”. All’alba prese il suo carretto e si diresse al mercato del villaggio, ma due poliziotti gli bloccarono la strada e provarono a rubargli la frutta, del resto Mohamed non aveva neanche una licenza – ma campava così, vendendo frutta al mercato di Sidi Bouzid. Lo zio di Mohamed cercò di aiutare il nipote andando dal capo della polizia a chiedere che i due poliziotti la smettessero, e così fu – lasciate lavorare il ragazzo, disse ai suoi uomini il capo. Ma Feyda Hamdi era una donna orgogliosa, non le era andato a genio quel richiamo, e così tornò da Mohamed e prese con la forza due cesti di frutta, tanto che Mohamed si sentì umiliato, una donna che gli rubava la frutta e lo tormentava, provò a fermarla, ma per tutta risposta lei lo prese a schiaffi davanti a tutti. Bouazizi era al culmine dell’umiliazione: scoppiò a piangere e disse ”perché mi fai questo? sono una persona semplice e voglio solo lavorare”. Non sapendo più cosa fare, Mohamed se ne andò al municipio del villaggio e chiese di vedere un ufficiale, ma gli risposero con sufficienza di tornarsene a casa, allora lui quasi arrabbiato tornò al mercato e disse agli altri venditori che voleva che il mondo sapesse di tutte queste ingiustizie, e di come fosse corrotto il sistema, e di come lui fosse stato trattato ingiustamente. Diceva che voleva darsi fuoco. Nessuno lo prese sul serio, ma dopo poco i venditori sentirono delle urla: Bouazizi si stava dando fuoco di fronte all’edificio municipale.
Era il 17 Dicembre del 2010, in un villaggio della Tunisia, il giorno in cui un uomo decise di accendere il fuoco delle rivolte arabe. Quando il blogger tunisino Slim Amamou iniziò a far girare i video dell’accorata protesta dei venditori di Sibi Bouzid dopo il gesto di Bouazizi, la Tunisia sembrò risvegliarsi di colpo dal torpore del regime di Ben Alì. Dai villaggi rurali del Sud fino alla capitale Tunisi la protesta prese a impazzare nelle strade del paese: la disoccupazione, i rincari alimentari, la corruzione, erano tutti motivi di una protesta che si raccoglieva intorno al simbolo di un uomo che si era lasciato ardere vivo. Quando Ben Alì si accorse che anche le forze di polizia venivano meno, a sostegno dei manifestanti, fu costretto alla resa il 13 Gennaio 2011, e alla fuga in Arabia Saudita.
Seguendo l’esempio della Tunisia, le manifestazioni iniziano a dilagare nei paesi vicini: già a fine Dicembre è la volta dell’Algeria che protesta contro il rincaro dei prezzi di beni di prima necessità come pane e olio, la disoccupazione e la povertà, e contro il regime del presidente Abdelaziz Bouteflika; le proteste arrivano in Giordania il 14 Gennaio, e si concentrano contro la disoccupazione e il carovita, il re Abd Allah II, sua moglie Rania, e il primo ministro; il 17 Gennaio è la volta di Mauritania e Oman, il 21 si sfonda anche il muro dell’Arabia Saudita, e anche il Libano torna al movimenteismo. Ma sarà in Egitto che il vento della protesta riuscirà a diventare una rivoluzione.
Il 17 Gennaio un altro uomo, stavolta al Cairo, si dà fuoco, e poi ancora altri due operai tre giorni dopo: è la premessa per i venticinquemila manifestanti che scendono in piazza il 25 Gennaio contro il presidente Hosni Mubarak. In pochi giorni simbolo della rivoluzione diviene piazza Tahrir con il suo presidio permanente di occupazione: gli scontri con le forze dell’ordine diventano all’ordine del giorno, ci sono morti e feriti, fino alle dimissioni di Mubarak l’11 Febbraio. Sembra una vittoria per i manifestanti egiziani, ma il potere va nelle mani del Consiglio supremo delle forze armate, e il ruolo di primo ministro va ad Ahmad Shafiq, figura continuativa del regime di Mubarak che sarà infatti sconfitto alle elezioni del 2012 da Mohamed Morsi, vicino invece ai Fratelli Musulmani.
Il caso siriano è probabilmente quello più doloroso, perché sfocia in una vera e propria guerra civile che continua ancora oggi: tutto si inaugura il 26 Gennaio quando ad Al-Hasakah si dà fuoco Hasan Ali Akleh per protestare contro il regime di Bashar al-Assad. Inizialmente le proteste in Siria sono rade e spontanee, pochi i manifestanti che partecipano agli appuntamenti riconosciuti come i giorni della rabbia su Facebook e Twitter, anche perché solo a inizio febbraio il governo di Damasco apre internet e i social network. In quei momenti i siriani scoprono davvero cosa sta succedendo altrove, e iniziano a simpatizzare con l’esperienza libica.
Intanto a Bengasi, in Libia, la situazione è incandescente: giovani blogger tentano di alimentare una rivolta al regime di Gheddafi sul modello della Tunisia e dell’Egitto, durante la Giornata della collera del 17 Febbraio sei persone vengono uccise a Bengasi, e molti sono i feriti negli scontri con le forze dell’ordine. Le proteste dilagano in tutto il paese, tanto che Gheddafi si vede costretto ad assoldare soldati esterni mercenari da impiegare sul campo di battaglia contro il suo popolo: tuttavia le forze di opposizione avanzano e arrivano fino a Tripoli. La Libia diventa lo scenario di una violenta guerra civile, fatta di territori di conquista, nascondigli, mesi di sangue e odor di morte, e persino un intervento della Nato, che terminerà solo ad ottobre con la morte del dittatore Gheddafi. Ma resta un’eredità di lotta in tutta la nazione.
È paradossale (e neanche tanto) notare come l’intervento esterno di forze ‘occidentali’ ci sia stato nel caso della Libia e sia mancato, invece, in zone come la Siria: c’è la complicità di alcune risorse che si trovano nei territori libici e non in quelli siriani, tuttavia la mancanza di un aiuto vero ai ribelli siriani ha trasformato la situazione in un teatro di orrori che ad oggi – 2014 – continua in forma di farsa, con le recenti rielezioni di Assad al potere. In questo scenario si è lasciato che le infiltrazioni religiose e di movimenti affini anche sui confini siriani entrassero a dar man forte nel cuore delle forze ribelli, trasformando Assad in una sorta di garante violento dell’anti-sharia. Le vittime in questo caso, come sempre, diventano gli innocenti, e i sognatori di libertà, i siriani che chiedevano – anche rischiando con la propria pelle – una vita migliore. I gruppi jihadisti crescono, e ne vanno di mezzo i rifugiati, gli scampati, i morti, gli avvelenati dai gas e dalle armi chimiche (!) di Assad: ne fa le spese il popolo siriano, lasciato imbellamente al suo destino da tutti gli osservatori internazionali.
E cosa resta di questa giovane primavera che sta invecchiando nel tempo esalando un sapore amaro? Resta uno stato di guerriglie permanenti in Egitto e in Libia, restano infiltrazioni oltranziste teocratiche, restano l’odore di morte e il colore del sangue nei territori dove niente è cambiato (come in Algeria), resta il dissapore di un mondo fermo e impaurito, resta il problema di come costruire le sorti di un paese una volta fatta la rivoluzione. Resta la sensazione di resa delle famiglie che hanno perduto i loro cari in battaglia o arsi vivi senza un vero cambiamento reale, un’idea di giustizia sociale per la vita di tutti i giorni. Resta la sconfinata frustrazione di imbarcarsi per il vecchio mondo europeo e scampare l’amarezza reale della propria terra: resta l’immigrazione e la fatica dei respinti, che cercano casa altrove non trovandola mai. Restano le forze religiose, e restano sul campo a combattere. Se il fallimento c’è stato in quest’esperienza è stato nel post, non certo nelle rivolte. La rivolta nasce da un’idea di come si vorrebbero le cose, nell’indicazione di una direzione diversa, nel sogno della coscienza stanca e delusa.
La questione urgente diventa oggi: permettere a Mohamed Bouazizi di lavorare felicemente, impedirgli di morire per un sentimento di ingiustizia. Quando sarà arrivato quel giorno in queste terre stanche e ardenti, forse si potrà parlare di un’esperienza dove il fallimento è stata solo la fase di una costruzione di libertà.
(foto di copertina di Yuri Kozyrev @ Sidi Bouzid, Tunisia)