Non è facile doversi confrontare con un film come La migliore offerta, ultimo lavoro di Giuseppe Tornatore, tornato alla regia di un film dopo i quattro anni trascorsi da Baarìa. C’è da dire subito che chi scrive appartiene alla nutrita schiera di coloro i quali guardano al cinema italiano attuale con sospetto e diffidenza; già a partire dai primi minuti ho potuto però constatare una serie di fattori che rendono questo lavoro ben diverso da tanti altri film italiani di oggi. In primis il cast internazionale; Geoffrey Rush veste benissimo i panni di Virgil Oldman, meno convincente a mio parere Sylvia Hoeks, bella ma un po’ insipida, nel ruolo di Claire (a questi nomi si aggiungono quelli di Donald Sutherland e Jim Sturgess).
In secundis la confezione pressochè impeccabile, degna della migliore produzione hollywoodiana, probabilmente anche eccessiva, fin troppo pomposa ed esibita, condita dalle musiche di Ennio Morricone.
Virgil Oldman è un celebre battitore d’aste chiamato da una giovane donna a valutare il patrimonio dei propri genitori defunti; tale Claire però si sottrae diverse volte all’incontro con Virgil, il quale matura via via una certa curiosità nei confronti della donna, non sapendo mai come rapportarsi ad essa, dal momento che il suo unico contatto con l’universo femminile è costituito da una collezione di ritratti.
E’ a parer mio un film complesso, con diversi pro e contro. Innanzitutto abbiamo una prima parte piuttosto dilatata e ripetitiva, durante la quale lo spettatore attende ansiosamente il colpo di scena; superata questa prima parte la storia comincia a decollare e a coinvolgere sempre di più, nonostante alcune azioni che sembrano quasi buttate lì a caso, prive di qualcosa che le giustifichi in modo soddisfacente.
Tutto questo arriva verso un finale che risulta comunque destabilizzante, anch’esso tuttavia un po’ troppo dilatato, nelle ultimissime scene direi anche retorico.
Il motivo predominante del film è senza dubbio un grande classico, quello del rapporto fra vero e falso, nella vita come anche nell’arte, e nel cinema. Perchè nel momento in cui c’è una macchina da presa, la realtà, quella con la r maiuscola, non può esistere.
Durante i titoli di coda quindi è facile pensare che Tornatore si sia preso gioco del suo pubblico per la bellezza di 124 minuti, ma resta comunque una beffa piuttosto interessante.