Il confronto tra i tre candidati (Renzi, Civati e Cuperlo) in vista delle primarie del Partito Democratico dell’8 Dicembre non è stato niente di storico e trascendentale, ma ha messo in chiaro una volta per tutte che la barba di Pippo Civati ha qualcosa in comune con quella del cantautorato indipendente. Faccio l’esempio di Bill Callahan.
A inizio carriera Bill si faceva chiamare Smog, non aveva la barba e si dilettava con registrazioni più che altro lo-fi: molto meno conosciuto di oggi, molto meno profondo probabilmente, anche se il talento c’era già. La svolta cantautoriale vera e propria viene quando decide che è il momento di crescere la barba, anche la voce si approfondisce diventando velenosa come quella fendente di un Leonard Cohen, meno tagliente e più soffusa, profonda come un bicchiere di vino rosso, assassina. Per un certo periodo Bill Callahan porta in giro la sua barba. La stessa svolta di look arriva anche per Pippo Civati.
Paladino del mondo dei blogger, per motivare con più profondità la sua candidatura inizia a portare la barba, e dal lo-fi degli inizi prova a trasformarsi in un cantautore. Ovviamente la barba non basta mai. Lo sa bene Bill Callahan quando si accorge di quanto Justin Timberlake riesca ad affollare i concerti molto più di lui, lo sa anche Civati quando cade nella trappola di subire l’appeal di Matteo Renzi insieme al pubblico da casa.
Tuttavia la barba conferisce quello sguardo più profondo sui tempi che pare mancare al giorno d’oggi, se sia un trucco o un’autentica rarità non lo sapremo mai con certezza, ma con Bill Callahan funziona ad ogni nuovo album. Tuttavia quel trend che ormai è diventato un fenomeno di culto, la barba del cantautorato indipendente, porta ancora addosso il sapore di una minoranza creativa. Al di là delle imitazioni di bandiera, finisce sempre per essere una maniera un po’ isolata di concepire il mondo, quasi alternativa. I sound di Justin Vernon per quanto sputtanati restano sempre qualcosa di minoritario in un mondo dominato da altri sound, anche quando cresce il numero di adepti a Bon Iver.
Restiamo nell’ambito della fatica del chitarrista solitario e sincero, che compone per sè i propri canti con le sue parole. Il disco d’esordio di Bon Iver è For Emma, Forever Ago, completamente scritto in solitudine e in ritiro disperato, con qualche idea di chiarezza che pareva fuoriuscire fin dalle vene. Subito dopo Vernon diventa una specie di piccolo cult, con un disco dai sound meno incarniti, più colti in un certo senso se vogliamo chiamarli così, difficili.
Quello che voglio dire è che la barba di Civati mi sembra disperatamente minoritaria, troppo poco accondiscente ai tempi, un po’ troppo indie per parlare il linguaggio della politica. E per questo perderà, molto probabilmente.