L’arte si fa interprete di ciò che è, tra l’interiorità dell’artista e la condizione dell’individuo a cui si rivolge, nel tentativo di non abbandonare il mondo alla confusione o alla sua solitudine. L’arte è sempre sociale perché non necessita soltanto di artisti o intenditori, ma di semplici persone che gli diano la possibilità di essere guardata. In questi termini la Street Art assume una connotazione di maggiore rilievo nell’epoca contemporanea, fuori dagli schemi classici, tesa a coinvolgere la società nel suo luogo di provenienza: la metropoli. Keith Haring (1956 – 1990) fu questo tipo di artista, interprete del dissenso e dei bisogni della città, secondo uno stile personalissimo e che, ormai, è diventato un marchio internazionale, tanto da farlo finire nel commercio di cui si prendeva gioco, come troppo spesso succede nella nostra epoca, in cui è il mercato a determinare l’importanza degli artisti.
“Keith Haring: The Political Line“, per ora al museo di arte moderna di Parigi, raccoglie più di 200 opere dell’artista americano, contraddistinte dalla forte carica di denuncia che ha caratterizzato tutta la sua vita. Lo stile di Keith Haring è caotico come la sua New York, la linea è decisa come il messaggio che vuole lanciare, i soggetti sono irriconoscibili ed anonimi come gli sguardi di una grande città, nessuna parola è di troppo o fuori posto. Sono tante le critiche mosse dall’artista, presenti nelle sue opere, dal capitalismo al razzismo, dalla morale ai mass media, sintomo di chi non vive distaccato dalla realtà e non può che combatterla. Un uomo può riflettere soltanto davanti a quello che non capisce, se è costretto ad interpretare ogni singolo elemento di un quadro, allora sarà costretto a fermarsi. Quello che non è semplice, qui, diventa progresso artistico e sociale.
Il caos è un aspetto predominante nelle nostre città e nelle nostre vite e contamina inevitabilmente tutta la poetica di un artista che, nato nella piccola città di Reading, si trasferì nella grande mela. Dare un’espressione al caos, abbozzando corpi che si distorcono e si fondono insieme, che sono attraversati da animali o che chiedono aiuto. L’umanità che rischia di crollare in sé stessa è il soggetto preferenziale nelle prime opere, quelle provenienti dalla giovinezza, quando lo stileè ancora acerbo ed è il puro sentimento visivo a guidare il pennello. La riflessione, e la tecnica, trovano la loro stabilità definitiva poco dopo, quando iniziano ad apparire i simboli del linguaggio di Haring, gli omini senza volto e senza segni particolari, l’impersonificazione, in questo tipo di arte, o non esiste o è totale. Di questo si nutre la prima parte della mostra, dedicata a “L’individuo contro lo stato”, una società che incastra l’uomo e lo costringe ad una totale resa (Senza titolo [I], 1985) o accettazione (Senza titolo[II], 1985). Porre l’accento contro lo stato significa, anche, voler seppellire i suoi falsi miti (il denaro, approfondito poi nella parte “Capitalismo“) e la sua cultura bulimica da cui l’individuo si fa costantemente trafiggere (nel Senza titolo [III] del 1982, simboleggiato dal trapasso dei cani) e tirare (Senza titolo [IV], 1985). Dare spazio alla paura e al senso di sottomissione, in una lotta in cui vincere appare ormai impossibile.
Haring fu grande amico di Basquiat (Pile of Crowns, 1988) ma, soprattutto, di Andy Warhol che, in quegli anni, era il centro del mondo artistico. Lanciarsi contro al capitalismo significa dissacrarne i miti (Andy Mouse – New Coke, 1985), i mezzi (Reagan: Ready To Kill, 1980, collage fatti con i titoli dei giornali, riportanti le false notizie) e denunciarne le abitudini, prima che tutto sia perduto (Senza titolo [V], 1981) e che dalla testa non escano che serpenti. L’unica ribellione possibile che l’uomo ha per uscirne è cambiare, affossare la morale (in particolare quella cattolica e del denaro, che seppellisce l’uomo, Senza titolo [VI], 1982) e i suoi prodotti: i mass media, il consumo e il razzismo, prima che sia troppo tardi. In questo senso si sviluppa la parte dedicata a “Ecocidio, minaccia nucleare e apocalisse” che, in maniera profetica, sembra voler dire agli spettatori che più in là di così non si può andare (Senza titolo [VII], 1982).
La grande personalizzazione del linguaggio è la componente che più colpisce e costringe l’osservatore a fermarsi e riflettere. L’arte di Haring ha questo grande pregio. Non si tratta di scene che colpiscono immediatamente l’occhio per il tema trattato (i colori sono spesso forti e ingannatori) o per la disperazione nel trattare un determinato argomento. È costantemente presente un senso del grottesco in queste opere, non solo per la mostruosità di certe figure, ma che si confonde con un humour nero e sottile, che permette di rendere più accessibile il contenuto. Una caratteristica, quella dell’ironia, che si fa più chiara nello spazio “Sesso, Aids e morte” in cui la morte, nonostante Haring morirà nel 1990 per aver contratto l’Aids, non viene resa nella sua tinta più disperata ma in quella più dissacrante (Senza titolo, [Per James Ensor], 1989). confermando la grande dote di questo artista nel cimentarsi non solo con i problemi personali ma, soprattutto, con quelli che contraddistinguono l’umanità. Il compito di un artista non può soltanto essere quello di fare “bei quadri” ma, anche, quello di aiutare gli altri a proseguire il loro cammino. Non si tratta di opere che vi colpiranno per gli occhi di una Vergine sofferente ma per la forza di attrazione che hanno. Un vortice di significati più o meno oscuri, in cui la vita di tutti i giorni, anche quella attuale, si immerge.
Le opere citate, in sequenza di apparizione: