Una storia di riscatti. Questa, più che politica e sociale, è una questione poetica, anche in un anno caldo come quello del 1968, quando la primavera arrivò davvero dappertutto, anche dove è sempre inverno, e il sole della California scalda la pelle ma non le condanne dei suoi inquilini. In posti come la prigione di Folsom la storia si muove tutt’intorno senza sfiorarla, lasciandola semplicemente chiusa in se stessa, a scontare il debito con una società che non gli ha insegnato abbastanza. Capita, ogni tanto, che la storia si ripeta e, quando non abbatte le Bastiglie, decide di entrare dalla porta di ingresso, coinvolgendo i suoi detenuti. Decise, nel gennaio di quell’anno caldo, di entrare vestita di nero, abbracciando la chitarra di Johnny Cash, per dare vita a uno degli album dal vivo più venduti e coinvolgenti che la musica avesse mai visto prima. È una storia di isolamenti e solitudini reciproche, animata dalla stessa luce blues e dalla fiamma del riscatto, in cui non c’entrano le rivendicazioni sociali, le vendette contro la società o l’insegnamento dell’onestà ma, come dovrebbe essere ogni concerto, il restituire la materia prima dell’ispirazione nel prodotto manipolato dell’artista. At Folsom prison è una storia di riscatto, appunto, tanto per chi l’ha scritta, quanto per chi l’ha vissuta.
Re-issue. Il Johnny Cash che entra a Folsom in quel ’68 è profondamente diverso da quello che ci aveva già suonato due anni prima. È un uomo che ha imparato a conoscere i propri demoni, e per cui ha pagato largamente il prezzo (l’arresto a El Paso, il collasso e il rischio di overdose), che lentamente risale la china a al fianco di June Carter che, finalmente, riuscirà a sposare. Inevitabile che il suo personale riscatto passi dalle celle di una prigione. Il cambiamento interiore si riflette, inevitabilmente, sulla forza espressiva, anche se siamo ancora lontani dagli American Recordings, ultimo atto di una vita passata fra l’oscurità e la luce. L’uomo vestito di nero, però, è un uomo nuovo e At Folsom Prison è il segno tangibile del suo riscatto nei confronti di quegli incubi così profondi e di una ritrovata forza d’animo, quella che gli fece mollare il lavoro di venditore per incidere il primo album, nonostante la famiglia a carico, la stessa che, contro le perplessità della casa discografica e di tutti gli altri, lo portò in testa alle classifiche di quell’anno con un album registrato dentro una prigione dello stato, senza censure e tagli.
Hello, I’m Johnny Cash. A distanza di anni capisci perché è un album unico nel suo genere. A differenza di molte altre raccolte live consacrate agli dei della musica, quella di Folsom riesce a restituire quello che deve essere stato esserci. Questo perché lo scambio di battute fra Cash e i detenuti raffigura una complicità diversa da quella dell’adorazione che crea l’ascolto di un Made in Japan o un Get Yer Ya Ya’s Out, trascende il concetto di esibizione per assestarsi su un piano più personalizzante perché tutti, prigione o meno, abbiamo vissuto una condizione di isolamento, se non fisico almeno interiore, e il resto viene da sé. In qualche modo ti ritrovi a condividere l’emozione di Glen Sherley e dei suoi compagni di detenzione, quando Cash annuncia Greystone Chapel, brano scritto da Sherley stesso mai eseguito prima di quell’esibizione, e ti accorgi che anche dentro un luogo ostile e claustrofobico l’appartenenza è un valore. La stessa da cui si scappa quando ci si sente sperduti e ci si condanna a vivere al di fuori. Ognuno interpreta i dischi a modo suo, in base al modo che ha di affrontare la vita, At Folsom Prison sembra avere soltanto un’unica e sincera chiave di lettura, quel sentirsi galeotti anche all’aria aperta, nel tentare di sottrarsi alla lotta per emergere, nel sentirsi abbandonati o, soltanto, in cerca di una complicità. Johnny Cash, che tutti questi sentimenti deve averli provati, si trova calato in un ambiente a lui favorevole, non quello di pubblico ossequiante, quanto composto da persone che possono comprenderlo realmente (non a caso affermerà che si trattava del suo pubblico migliore). Un valore per se stesso, più che per la sua musica. I brani eseguiti, neanche a dirlo, parlano di storie che tutti, là dentro, devono avere vissuto. Situazioni come la lontananza (I still miss someone, Dark as a Dungeon), gli eccessi (Cocaine Blues) ma anche la voglia di libertà (Green, Green Grass of Home, Give my Love to Rose) e di redenzione (cristallizzata in Cash da Jackson e June Carter). Il ricordo, però, non è malinconico, fedele tanto al blues quanto al country, Cash crea un intenso intreccio di movimenti per chi si ritrova bloccato nei movimenti e l’unico modo per spostarsi è viaggiare con la mente, oltre quelle quattro mura. Il rispetto e la gratitudine, più che la reverenza, che si forma attorno a lui è quella di un pastore che parla al proprio gregge senza erigersi a maestro e lo si capisce nel modo in cui scherza sul gusto dell’acqua che gli viene data ma, ancora di più, dall’accoglienza riservata a June Carter, perché ti aspetti cori animaleschi, e invece sono solo applausi. La donna dell’uomo in nero non si tocca, come non si insulta la madre di un tuo fratello. Tutto quello che non si può dire è celato nel disco, nelle sue pause, nelle canzoni impreziosite da commenti e da quella profonda e non più amara risata del suo cerimoniere. Ed è una festa, di quelle che soltanto la storia sa impregnare di dolcezza e profondità, anche nei luoghi più bui e dimenticati che, come una primavera inaspettata, escono per una volta dalle fredde celle dei detenuti per entrare nelle case di tutti. Un percorso che da dentro esce fuori, ed è pronto a conquistarsi una nuova vita.
La musica di At Folsom Prison è immutabile e astorica come la prigione in cui è stata registrata, fuori dai temporali, e l’unica cosa che rimane è tornare nella propria cella, sicuri di non essere più soli perché, finché hai un uomo in nero vicino, poi tanto rinchiuso non lo sei.