Correva l’anno 2010 quando il primo album solista di John Grant – Queen of Denmark – ci cadde sul cranio con una certa violenza. L’entità dell’impatto fu certificata dalla stragrande maggioranza della critica che gli riservò voti altissimi, posizioni in classifica da record (per un esordio) e numerosi live report estasiati. Dopo tre anni di silenzio e con l’hype alle stelle, John Grant torna trasformato ma non troppo, con un’influenza elettronica forte ma ancora incatenato alle (belle) dinamiche da songwriter tout court al quale ci ha abituato.
Andiamo con ordine. John Grant viene dai Czars, giovane band di Denver che si conquistò una certa credibilità con una manciata di album non ignorabili. Il gruppo si sciolse per svariate motivazioni, soprattutto interne e legate alle ispirazioni e ambizioni dei singoli membri. Il nostro cominciò quindi una carriera da solista nei tour dei Flamig Lips e dei Midlake. Quest’ultimi, evidentemente colpiti, incoraggiarono Grant a incidere il primo disco per la Bella Union e fu un episodio felice. Ora siamo al secondo e mi sento di poter dire che si è bissato il capolavoro.
L’album è stato anticipato dal singolo Pale Green Ghosts, che lasciava intravedere una nuova influenza proveniente dalla musica elettronica, unita a dei momenti epici composti da fiati e archi che richiamano certe colonne sonore nei momenti di climax. L’aspettativa elettronica non era tradita e la seconda traccia – Black Belt scritta con Biggi Veira – è praticamente un tributo a certi anni ’80, quelli più minimal dei Kraftwerk o ai più ballabili degli Eurythmics. Anche Sensitive New Age Guy nella seconda metà dell’opera è un’ottima traccia rappresentante di questa nuova vena.
Questi episodi però non tolgono spazio alle vecchie consuetudini di John Grant, infatti già dalla terza traccia – GMF – ritorniamo alle vecchie sonorità già consolidate e trovate nel primo album, un cantautorato dalla voce calda accompagnata perlopiù da una sonorità dal taglio tipicamente acustico. Anche It Doesn’t Matter To Him viene suonata con questo tipo di approccio, con l’aggiunta della voce di Sinead O’Connor, molto delicata, praticamente l’opposto della voce profonda e calda di Grant.
Per quanto riguarda il contenuto lirico ci troviamo di fronte ad un disco che parla perlopiù (ma non solo) di disperazione per l’amore perduto – Why Don’t You Love Me Anymore in questo senso è probabilmente la più rappresentativa – quasi tutte le storie e le sensazioni sono narrate in prima persona e farebbero pensare ad un John Grant spinto da una qualche vena auto-biografica. Sono molti i riferimenti ad un ipotetico soggetto amato, perduto, indifferente e circondato da una coltre inscalfibile che lo rendono inarrivabile.
I riferimenti culturali spaziano dal vittimismo al narcisismo passando per l’accettazione del dolore e la rassegnazione. Penso alle confessioni di GMF – «But I am the greatest motherfucker / That you’ll ever gonna meet / From the top of my head / Down to the tips off the toes on my feet» – o ancora al richiamo a Woody Allen in Why Don’t You Love Me Anymore oppure al suggestivo e malinconico passaggio in You Don’t Have To: «Remember walking hand in hand side by side / We walked the dogs and took long strolls to the park / Except we never had dogs / And never went to the park».
Per concludere non si possono non menzionare il sax presente nelle retrovie di Ernest Borgnine, gli allegri controtempi di I Hate This Town e la suggestiva immagine paesaggistica di speranza che ci regala Grant nella traccia conclusiva Glacier: «This pain it is a glacier moving through you / And carving out the valleys / And creating spectacular landscapes / Nursing the ground / With precious minerals and other stuff / So don’t you become paralyzed with fear / When things seem particularly rough», il dolore è un movimento tellurico del sottosuolo capace anche di “creare” e non solo di “distruggere”
Non si tratta di un disco da ascoltare una volta sola questo di John Grant. Pale Green Ghosts è un album di una certa intensità e profondità, in particolare sul piano lirico, con intermezzi elettronici che servono soprattutto a non stenderci completamente tra una riflessione sul dolore e una considerazione sull’auto-accettazione. Merita non solo l’acquisto, ma anche il rispetto di essere ascoltato svariate volte fino all’usura, sia nostra che sua.
Tracklist:
- Pale Green Ghosts
- Black Belt
- GMF
- Vietnam
- It Doesen’t Matter To Him
- Why Don’t You Love Me Anymore
- You Don’t Have To
- Sensitive New Age Guy
- Ernest Borgnine
- I Hate This Town
- Glacier