In vista della seconda data del tour promozionale di Obtorto Collo, primo album solista di Pierpaolo Capovilla, abbiamo deciso di raggiungerlo ieri, giovedì 30 ottobre, subito dopo il soundcheck allo Spazio 211 di Torino. Tra una sigaretta e un bicchierino ci ha parlato a cuore aperto non solo del suo disco, ma soprattutto della sua visione del mondo, di politica, di musica e di letteratura.
Dopo aver realizzato cinque dischi con i One Dimensional Man e tre con il Teatro degli Orrori, Obtorto Collo è il primo album che entra a far parte del tuo inedito progetto solista. Quali sono i pregi e i difetti del nuovo percorso che hai intrapreso?
I difetti sono tantissimi. Con il senno del poi ogni volta che ascolto un disco che ho composto e registrato lo vorrei cambiare. Dopo cinque, sei mesi che ascolti il repertorio e che lo prepari succede che suonando con una band e reiterando la performance dei pezzi subentrano altre idee, ti vien da pensare “ma perché non mi è venuto in mente prima?!” ed emerge sempre un sentimento di rimorso in qualche misura.
Ma la differenza sostanziale tra il lavoro di gruppo e quello individuale qual è?
È chiaro che ci sono delle differenze cruciali. Una band è una band, quindi un cervello collettivo, qui ho invece ho avuto più libertà di esprimermi esattamente come volevo, però in tutta sincerità, questo è in realtà il mio primo album solista, ma è il frutto di un lavoro d’equipe. Questo disco sarebbe stato inimmaginabile senza il contributo innanzitutto del maestro Zennaro con cui ho coscritto gran parte dei pezzi e ricordo che Zennaro viene dalla musica per la danza – è un collaboratore di fiducia di Carolyn Carlson – giunge da un territorio musicale del tutto avulso dal rock radicale, autentico, genuino, bello estremo, massimalista come quello del Teatro degli Orrori, lui non ne sa niente, viene dalla canzone francese e si sente. Poi c’è il contributo di Taketo Gohara, produttore storico di Capossela, anche se poi lui come produttore ha fatto tante cose diverse – dai Negramaro a Capovilla per capirci – però il suo contributo è stato cruciale perché è riuscito a coinvolgere ben venti musicisti che hanno portato il loro prezioso contributo al progetto. C’è stata un’amorevolezza, un affetto e un entusiasmo nel partecipare a quest’avventura che si sente, si percepisce.
Questi musicisti ti seguono anche nelle date dei live?
Soltanto Guglielmo Pagnozzi al sax alto. Non c’è Vincenzo Vasi, non c’è Cesare Picco, non c’è Davide Rossi, abbiamo riarrangiato l’intero repertorio per poterlo implementare sul palcoscenico. Sai, alla fine questi musicisti sono tutti bravissimi, ma hanno un sacco di impegni, quindi è stata una bella battaglia per creare una band e portare qualcosa dal vivo.
Una passione a te cara è la letteratura, testimoniata poi anche dai numerosi reading e tour teatrali che negli anni ti sei impegnato a portare in giro per l’Italia, dalla poesie di Vladimir Majakoskij a quelle di Pier Paolo Pasolini nel 2013. Quali sono gli autori e le opere letterarie che hanno inciso ed influenzato maggiormente le tue idee? E per quali motivi?
Non è facile rispondere ad una domanda di questo tipo, perché io sono uno che legge molto o forse troppo poco, non lo so. Io non credo che ci sia un autore in particolare che possa considerare un mio punto di riferimento. Indubbiamente Céline quello che ho letto con più entusiasmo, ero anche molto più giovane. In realtà è più la cronaca nera che mi ispira, sono i fatti della vita quotidiana che viviamo, leggiamo sul giornale, ascoltiamo in televisione. Io sono convinto che la vita reale sia una vera letteratura. Chi scrive – anche il genio, il grande talento letterario – ha il privilegio di poter scrivere, poi c’è la vita delle persone, quella vera ed io in questo mi sento molto vicino a Céline che lo diceva chiaro e tondo: “Non possiamo narrare nient’altro se non la verità”. Poi naturalmente la possiamo trasporre, possiamo rivelare anche in un’opera di fantasia, però dev’esserci una corrispondenza con la nostra vita reale, perché si tratta dell’opera d’arte par excellence, non soltanto per Capovilla, ma per ognuno di noi. C’è molta più poesia – poesia si fa per dire – nella morte di Francesco Mastrogiovanni che fu maestro elementare amato dai bimbi e stimatissimo dai genitori che è stato assassinato come una bestia. Chiaro che parlo di poesia non nel senso di bellezza, però c’è una bellezza anche in questa tragedia ed essa dovrebbe indurci ad alzarci in piedi e a dire basta. Ci manca però l’indignazione ed è proprio in questo sentimento che potrebbe davvero emergere una poesia dell’anima.
Una sorta di rivalsa?
Eh… rivalsa. Noi viviamo tempi di grande indifferenza e non ce ne frega più niente di nessuno. Io credo che con la musica possiamo in qualche modo combatterla. Non faremo la rivoluzione, perché lo so, non la faremo mai, ma possiamo contribuire ad un miglioramento dell’immaginario collettivo.
Riguardo ai contenuti, esiste ancora oggi un tipo di letteratura che non si faccia schermo dietro a stratagemmi puramente stilistici o l’impoverimento della lingua colpisce ormai ogni campo della conoscenza?
Io credo che il mio lavoro possa essere considerato una delle possibili eccezioni in questo momento e ovviamente non soltanto il mio. Io peso ogni parola, affinché ogni parola possa diventare verso, dicendo qualcosa di più allegorico e possa portare chi ascolta a porsi delle domande, a riflettere. Oggi viviamo non soltanto in tempi di grande indifferenza, ma anche di fretta nella comunicazione, di compulsività, coi social network e la televisione, mentre fare buona musica e letteratura vuol dire concedersi un momento di riflessione. La fretta è la peggiore delle consigliere. Io ad esempio inorridisco quando sento l’attuale primo ministro italiano dipingere il Novecento come un vecchio arnese di cui è meglio dimenticarsi. Non esiste alcun buon futuro se ci dimentichiamo del passato più recente. Questa gente crede che con quattro battute si possano liquidare gli intellettuali del Novecento italiano e non solo quelli italiani. E tutto ciò è ridicolo ed è di un giovanilismo puerile, narcisistico ed edonistico, figlio dei nostri tempi, figlio anche di un modo di ragionare privo di critica. La critica nel senso filosofico è fondamentale, cioè di individuazione dei limiti in cui vengono costrette le nostre esistenze. Una volta individuati quei limiti possiamo almeno cominciare a sperare di poterli superare, ma se neppure osiamo e tentiamo ad individuarli restiamo in questo sempiterno, inutile e reiterato presente a cui questa classe dirigente ci vorrebbe condannati una volta per tutte.
Abbiamo toccato il fondo?
No, dipende da me, da te, da noi, dalla collettività. Se riusciamo a fare gruppo potremmo cambiare il paese e il mondo, se invece accettiamo queste persone sarà sempre peggio. Se il Partito Democratico deve vincere le prossime elezioni politiche diventando esattamente il contrario di quello che è sempre stato a me non piace. Sono diventati dei bugiardi, credendo alle bugie che dicono, sono veramente figli dei nostri tempi. A trentotto anni si è troppo giovani e non si ha il polso della realtà – non ce l’ho con i giovani – ma un trentottenne di oggi è come se fosse un diciottenne degli anni ’50. Io non darei mai il paese in mano ad un ragazzino, ad un boy scout.
Tornando al disco, le linee melodiche delle canzoni contenute in Obtorto Collo, come Bucharest, Dove vai o Irene, solo per citarne alcune, risultano essere più distese rispetto a quelle dei precedenti lavori con il Teatro degli Orrori. Gli archi hanno talvolta sostituito l’onnipresente combinazione di chitarra-basso-batteria e leggendo alcuni dei tuoi testi sembra quasi che tu abbia voluto metterti a nudo, cercando piuttosto la psicanalisi ed allontanandoti molto dal cantautorato italiano. Dov’è finita la rabbia alla quale eravamo abituati?
Dal punto di vista dell’economia narrativa credo che ci sia una forte continuità. Indubbiamente il rock ti dà la voglia di alzare la voce e di comunicare il tuo pensiero con più rabbia e con quella convinzione tipica del rock, mentre se tu introduci archi e fiati tutto diventa più riflessivo, più intonato se vogliamo. Più dolce. Potrei citarti decine di canzoni del Teatro degli Orrori che sono più affettive, più amorevoli della stessa Bucharest ad esempio. Per me l’amore è un rapporto sociale, in cui ci può essere il bello, ma anche del brutto. Quante volte assistiamo nella cronaca nera di cui accennavamo prima, al rapporto d’amore tra un uomo e una donna soprattutto, in cui si possono osservare le peggiori prevaricazioni e terribili ingiustizie. Leggevo qualche giorno fa che ogni tre giorni viene uccisa una donna dal partner, può essere anche il padre o il fratello, ma la costante è l’uomo che vuole dominare e prevalere sulla vita della donna. Una canzone può narrare questo stato di cose molto di più che un’intera letteratura, perché con una canzone vai a toccare determinati punti e vai cercare l’affetto di chi ne fruisce. La musica aiuta, è magia sotto questo aspetto, arriva dritta al cuore, sempre che tu ti voglia far colpire. Poi ci sono i cuori di pietra e Shakespeare diceva: “Sempre diffidare da chi non ama la musica”. Vuol dire che quella persona è indifferente alla vita degli altri e che non vuole lasciarsi coinvolgere da niente e da nessuno. Noi viviamo sempre e comunque insieme agli altri. Questo mio disco – per capirci – è fortemente autobiografico, ma parla delle persone che mi stanno intorno, parla della società in cui vivo, è sicuramente un’autobiografia, ma è collettiva.
Tra le canzoni della raccolta ce n’è una che si intitola La luce delle stelle, che parla di Torino e di un barbone che appartiene a questa città…
E’ soprattutto una canzone su quel barbone che è una persona veramente esistita, non ti dirò chi è, ma ho proprio pensato a lui scrivendola.
Qual è il tuo rapporto con Torino e quali sono i ricordi che più ti legano a lei? Le notti ai Murazzi le hai vissute personalmente? E che cosa pensi della chiusura dei locali e della conseguente fine di un’era?
Avoja, di quelle sbronze da Giancarlo spaventose! L’ultima volta che ho frequentato i Murazzi – si parla di un paio di anni fa – ho visto un certo degrado. Troppi pusher, c’era un’atmosfera di latente violenza e prevaricazione da cui bisognava guardarsi passo per passo, quindi mi rendo conto che la situazione sia degenerata. Sarebbe stato bello agire prima per poter contenere certi fenomeni. Ricordo quel giovane che venne gettato nel fiume, quella fu forse la goccia che fece traboccare il vaso, perché di fronte a tanto cinismo e nichilismo morale delle persone non ci si può non scandalizzare. Ma guarda Roma che non ha ancora un assessore alla cultura, l’Angelo Mai ha rischiato di chiudere, hanno fatto finire per eutanasia la splendida esperienza del Teatro Valle, ma i dirigenti del Partito Democratico non vedevano l’ora di mettere la parola fine. In altre città come Berlino, Zurigo, Londra o Parigi verrebbero finanziate. Queste persone hanno paura della cultura, perché sono ignoranti e chiunque possieda un lume in più di loro gli incute timore. Le officine culturali sono invece importantissime, perché lì si condivide l’esperienza della cultura con gli altri e chiunque può partecipare. Sono forme d’espressione dello spirito democratico: vogliamo che i giovani continuino a bere aperitivi, allora facciamoglieli bere. Questo mancato rispetto nei confronti della cultura e di chi l’ha fatta, istituzioni come Zagrebelsky o Asor Rosa, ecco questa mancanza di rispetto assomiglia a quella che può avere un adolescente nei confronti del preside, si tratta di persone che non sono mai cresciute e non cresceranno mai.
Qual è la tua reazione alle critiche e alle persone che a prescindere ti danno contro, i cosiddetti haters?
Ma chi, scusa? Si tratta di persone che ottengono visibilità entrando nei nostri canali, ma non me ne frega assolutamente niente.
In Italia c’è sempre stata un po’ questa tendenza a preservare le anime che non si esprimono o che tendono all’immiserimento dello spirito, mentre la profondità, la capacità analitica e quella vena un po’ intellettuale, tendiamo a penalizzarla, secondo te perché ciò avviene?
Coloro che non si esprimono in rete, dunque. Io non li ho di certo mai penalizzati, ma ormai il mezzo è diventato il fine. Internet sembrava poter essere una straordinaria vocazione di democrazia, poi sono arrivati i social network e l’hanno trasformata in qualcosa di completamente diverso da sé. Negli anni ’80 ci si poteva scannare per apparire in televisione per un minuto e lo si fa ancora adesso, guarda i talent show. Adesso con Facebook, Twitter, Instagram ognuno può apparire. Più grossa la spari più avrai commenti, si tratta di una forma di diseducazione di massa veramente straordinaria.
Questo fenomeno ha a che fare anche con la scuola?
Non dipende dalla scuola, parte da questo vilipendio dell’istruzione pubblica che è stato operato negli ultimi trent’anni nel nostro paese. Qualsiasi governo che abbia avuto il potere, sia di destra che di sinistra ha sempre tolto risorse all’istruzione pubblica, mentre è la culla della democrazia. Perché con l’istruzione facciamo i cittadini, con il costume, con i media e la tv invece facciamo i consumatori. Evidentemente siamo di fronte ad un ceto politico che brama un popolo di consumatori, ma anche questa è una storia antica. Per come la vedo io cercherò di combattere questi fenomeni, so che sarà una lotta donchisciottesca, perché questi sono dei mulini a vento ed io di miracoli non ne posso fare, ma questo non mi induce ad abbandonare la lotta quotidiana. Insisto che c’è un ceto politico inadeguato ed insufficiente. Noi ce l’abbiamo con loro, dandogli dei ladri e dei farabutti, ma è un errore. Noi dovremmo prima di tutto pretendere che diventino guida di un paese, ma finché le guide sono persino peggiori del peggiore dei cittadini non possiamo aspettarci di giungere ad una direzione. Questo paese sta naufragando, dobbiamo rintracciare la terra, bisogna trovare un approdo, ma a loro non importa, questi godono nel naufragare. Nel frattempo comandano e amano il potere. La politica in Italia è un mercato, qui è tutto diventato una questione strumentale. Continuano a chiedersi: “Come facciamo a comandarvi?”
È un do ut des?
Certo, è una moneta di scambio.
Ti ringrazio per questa chiacchierata infervorata!
Ed io ringrazio te!