Gabriele Del Grande è un reporter freelance italiano che gestisce un blog indipendente, Fortress Europe, in cui racconta i suoi viaggi. La sua biografia dice: ”Ha collaborato con Time, Taz, Rai, Rtsi, Radio 3, Jungle World, Roads & Kingdoms, L’Unità, Redattore Sociale, Narcomafie, Peace Reporter, E-ilmensile, e altri. Per Infinito edizioni ha pubblicato i libri Mamadou va a morire (2007, vincitore del premio Santa Marinella, tradotto in spagnolo e tedesco); Il mare di mezzo (2010, vincitore dei premi Colomba d’oro, Pro Asyl Hand, Uisp Mandela e Ivan Bonfanti, tradotto in tedesco e in spagnolo) e Roma senza fissa dimora (2009). Ha inoltre collaborato alla redazione del libro+DVD Come un uomo sulla terra (2009) e al quarto taccuino del premio Ilaria Alpi Africa e Media (EGA). Attualmente vive a Milano.” Qui sotto la nostra intervista.
Partiamo dal reportage pubblicato da Internazionale sulla Siria: anzitutto puoi raccontarci questo viaggio?
È il quinto viaggio che faccio in Siria da quando è iniziata la guerra. Ma è la prima volta che riesco a girare soltanto con dei civili, senza quindi dover lavorare da embedded con l’esercito libero. Ad Aleppo sono stato dieci giorni. Ho visitato la linea del fronte, le scuole, gli ospedali da campo, alcune milizie dell’esercito libero, gli attivisti del movimento civile, i tribunali islamici, le prigioni, le zone dei curdi, i mercati. È stato un viaggio in mezzo alla gente comune, con cui ho condiviso i rischi e i pericoli di viaggiare a piedi, senza scorta né autista, in mezzo all’inferno di una città devastata da un anno di guerra.
Hai parlato di un nuovo modo di fare giornalismo oggi, un giornalismo post-coloniale, libero e free-lance nel vero senso della parola. In che modo tu vivi questo mestiere, il giornalista post-coloniale?
Quando vado in Siria, parlo con i miei contatti nella loro lingua, in arabo, senza la mediazione di un interprete e condivido con loro tutti gli strumenti di una civiltà tecnica e di un linguaggio che ormai è globale. Quando pubblico le storie di chi ho intervistato, il giorno dopo me le commentano su facebook perché siamo amici online. Non c’è più lo sguardo coloniale della vecchia generazione di reporter, così pieno di orientalismi e generalizzazioni. Noi siamo la prima generazione capace di guardare alla pari i nostri soggetti oltremare. Viaggiamo leggeri per necessità. Perché senza una redazione alle spalle hai pochi soldi da spendere. Tuttavia, quel viaggiare povero è una risorsa, perché ti fa condividere tutta la tua giornata con la gente di cui poi scrivi. E in quella condivisione tu scopri l’umanità, con la sua dignità e le sue debolezze, la sua grandezza e le sue bassezze, della gente che poi racconti nei pezzi.
Si sa che quello del reporter in zone ad alto rischio come la Siria è un mestiere pericoloso, penso per esempio alla morte di Gilles Jacquier, il reporter francese colpito da una granata ad Homs nel gennaio 2012. Tu come vivi il tuo rapporto con la paura, e come la controlli?
Alla paura ci pensi in due momenti. Quando saluti le persone che ami prima di partire, perché sai che potrebbe essere l’ultima volta che le vedi. E quando sali in macchina per uscire dall’inferno della guerra, perché ti dici che finora è andato tutto bene però magari proprio all’ultimo succede qualcosa. Nel resto del viaggio non ci pensi. E non è coraggio. È semplicemente la partecipazione a un delirio collettivo in cui vive la gente rimasta sotto la guerra. La voglia di vivere è più forte di tutto. E così anche in una città assediata da oltre un anno, la gente trova il modo di continuare a vivere, amare, ridere. E condividendo con loro tutta la giornata, entri anche tu in quello stato d’animo. Le bombe non fanno più paura, perché ci sono altri racconti da ascoltare, altri amici da aspettare, altri luoghi da vedere, anche solo con la fantasia. Tuttavia devi restare lucido e ascoltare quella paura che ogni tanto torna a galla. Perché quando te ne dimentichi, è il momento in cui rischi di più. La guerra è pericolosa e non bisogna scherzare con la fortuna. A un certo punto è il momento di tornare a casa.
Ovvio che da osservatore privilegiato tu sia fatto un’opinione sulla rivolta civile che ormai da due anni irrompe sul territorio siriano. Chi sono questi ribelli, e che futuro vedi per la rivoluzione? Considerando anche quello che sta succedendo in Egitto.
Il movimento civile siriano che tre anni fa scosse le piazze di tutto il paese per chiedere riforme e libertà dopo 40 anni di regime, è stato semplicemente straordinario. Per sei mesi hanno tenuto una piazza laica, interconfessionale, ricca di idee, e soprattutto convintamente nonviolenta nonostante i 3mila morti sotto gli spari della polizia sulle manifestazioni e sotto i ferri delle torture in carcere. Oggi di quel movimento rimangono le ceneri. Sul campo parlano soltanto le armi e sempre di più parlano le armi delle milizie degli islamisti radicali, che niente hanno a che vedere con l’opposizione siriana né con l’Esercito libero (di cui nemmeno riconoscono l’autorità). Il futuro della Siria è drammatico.
Fortress Europe è il tuo blog / sito personale, ma anche la cronaca costante dei tuoi viaggi, che in generale sono viaggi di frontiera nel Mediterraneo. Immagino che uno dei tuoi ispiratori possa essere Fernand Braudel, che per definire il Mediterraneo ha detto che è ‘‘mille cose assieme, non un paesaggio ma innumerevoli paesaggi, non un mare, ma un susseguirsi di mari”. Confermi questa sensazione di meravigliosa diversità che attraversa il Mediterraneo?
Sempre per citare Braudel, il Mediterraneo è un mare dalle dimensioni perfette. È abbastanza grande per mantenere la diversità dei popoli che lo abitano. Ma è anche abbastanza piccolo per permettere che quei popoli si scambino continuamente saperi, sapori, arti ed usanze. Al punto che alla fine, viaggiando da Tangeri a Napoli, da Marsiglia a Istanbul, da Gerusalemme a Tunisi, alla fine ti possa sentire sempre un po’ a casa.
La tua è anche una ricerca ed analisi delle migrazioni che avvengono nel Mediterraneo, e delle sue vittime. Puoi darci un punto di vista anche su quella che hai definito una specie di strage silenziosa?
È la strage che si compie nei nostri mari da quando l’Europa ha introdotto le politiche dei visti d’ingresso per limitare il diritto alla mobilità dei poveri. Ogni anno migliaia di giovani muoiono tentando di attraversare il Mediterraneo sulle rotte del contrabbando. E gli abitanti della ricca riva del nord anziché indignarsi per quel sangue innocente versato sulle stesse bellissime spiagge dove vanno in vacanza, sanno soltanto gridare all’invasore e chiedere muri ancora più alti. Fortress Europe, in questi sette anni ha tentato di raccontare questa strage, dando un nome, un volto, una storia a quei giovani martiri.
Sul tuo blog riporti la storia dei rapper del Mediterraneo che cantano l’avventura della traversata. Noi ci interessiamo di musica indipendente, e questo ci sembra un ottimo spunto: ce ne parleresti?
Da sempre la musica canta le grandi avventure delle giovani generazioni. E da quindici anni a questa parte quella dei harraga è sicuramente la più grande avventura per gli adolescenti della riva sud. Che siano egiziani, tunisini, algerini o marocchini, il sogno di imbarcarsi per Lampedusa ha sfiorato le menti di tutti nei quartieri popolari e nelle campagne più povere. È una sorta di bravata ai tempi della globalizzazione. Ma è anche un viaggio iniziatico, per diventare uomini e mostrare agli altri il proprio coraggio e il proprio valore, e in qualche modo salvare se stessi e la propria famiglia e riscattarsi dalla miseria. Il rap e il hip hop di questi paesi cantano questa avventura in pezzi che sono dei veri e propri tormentoni e che alimentano il desiderio per quella sfida.
Come mai non sei iscritto all’albo dei giornalisti, e che tipo di rapporto hai con i ”giornalisti di professione”?
Non mi sono mai iscritto all’albo perché non ho mai avuto una proposta di contratto. Lavorando come libero professionista, oltre a versare più del 50% del mio reddito allo Stato tra Iva, tasse e anticipi, non vedo l’utilità di pagare altri soldi all’ordine dei giornalisti, che in cambio non ci offre nessuna tutela. È soltanto una casta, che serve a tutelare i privilegi di chi è dentro il sistema. Noi siamo fuori e ci resteremo a lungo vista la crisi che c’è nell’editoria italiana. Inoltre lavoro ormai quasi esclusivamente con la stampa estera o con piccoli progetti di ricerca, quindi il problema per me non si pone. Con i “giornalisti di professione” non ho nessun rapporto. A parte quelli a cui intaso la casella di posta elettronica, spedendo loro decine di volte alla settimana la stessa email con la proposta di un pezzo fino a quando ricevo l’agognato “No, grazie”. Poi ovviamente ci sono colleghi che stimo, per la loro professionalità, la disponibilità, l’esperienza e la bravura. E mi dispiace che la casta dei giornalisti abbia creato questa barriera tra chi sta dentro e chi sta fuori. Io posso dire di avere imparato tutto quello che so dalla strada, dai viaggi, dai miei stessi errori. E mi dispiace. Mi dispiace non avere mai avuto un confronto con dei professionisti che magari fanno il mio stesso mestiere da quarant’anni e che sarebbe ora che con la giusta umiltà si facessero da parte e di dedicassero alla formazione delle nuove leve e alla trasmissione del loro importante sapere. Che altrimenti morirà con loro.
Dai un consiglio a qualcuno che voglia intraprendere un viaggio come reporter!
Il primo consiglio è di non partire. Il secondo pure. Il terzo anche. Non c’è mercato. Non c’è posto per le vostre storie. Le compreranno soltanto i soliti quotidiani pezzenti che hanno la faccia tosta di non pagare i loro collaboratori in nome della gloria o di proporvi cinquanta euro per un pezzo scritto dall’altro capo del mondo. Piuttosto, anziché partire, imparate bene l’inglese. E il primo viaggio fatelo su internet a cercare i contatti della stampa estera. Perché se davvero siete così testardi da partire lo stesso, c’è un solo modo per far quadrare i conti. Guardare fuori dall’Italia.