La firma di Emiliano Colasanti è una delle certezze del giornalismo musicale contemporaneo, la troverete spesso su Soundwall o Rolling Stones, e probabilmente vi sarete lasciati conquistare dalle sue parole. Fondatore dell’etichetta indipendente 42 Records (che, tra gli altri, produce Colapesce e I Cani), lo abbiamo raggiunto e intervistato a Napoli in occasione della presentazione del libro “Non ti divertire troppo“. Ne è uscita fuori un’interessante disamina sulla musica contemporanea, dallo svuotamento della parola indie alle etichette mainstream.
Oggi sei a Napoli per presentare ”Non ti divertire troppo”, un libro che in qualche modo ci racconta anche lo svuotamento della parola ”indie”: a questo proposito tu che ne pensi?, cioè per te come si è trasformata nel tempo?
La cosa divertente di ”Non ti divertire troppo” è che guardando la copertina mi sono reso conto che un buon 80% dei gruppi a un certo punto hanno firmato per major, per cui già nell’età dell’oro dell’indie forse la parola aveva acquistato un senso diverso da quello puramente letterale. Non a caso, avendo avuto la fortuna di intervistare alcuni esponenti di quella scena, penso a J Mascis, Frank Black, e Bob Mould, tra gli altri, sono rimasto colpito dal fatto che loro non usano quella parola’ per definirsi. Il termine adatto, per tutti loro, è “punk”. Per loro indie era solo la matrice dell’etichetta che li pubblicava, poi col tempo ha acquistato un significato diverso finendo per diventare tutto e niente, una parola buona sia per descrivere sia le chitarrine wave alla Franz Ferdinand, sia un modo di vestire. Un po’ come era successo quando i giornali di moda parlavano di “Moda Grunge”. Lo svuotamento di cui parli tu, secondo me, è arrivato proprio a metà degli anni zero, quando identificarsi come tale era diventato più o meno come dichiarsi paninaro negli anni ’80: il contenitore ha mangiato il contenuto, l’estetica ha preso il sopravvento su tutto il resto e l’attenzione si è spostata dalla musica ai maglioni a rombi.
Poi è arrivato hipster!
Sì, però il termine hipster ha tutta un’altra evoluzione, forse perché nessuno ha davvero chiaro cosa voglia dire davvero. Forse ha ragione Valerio Mattioli quando dice che non è altro che la traduzione in inglese di milanese. A me colpisce molto che da noi, praticamente solo qui da noi, il termine hipster venga usato per identificare tutto quello che non riusciamo a farci piacere degli altri. Vedo continuamente gente col baffo arricciato e i Cheap Monday che scrive su Facebook ”quello è un hipster di merda”, parlando magari di un tizio vestito come un impiegato di banca che in quel momento sta scrivendo la stessa cosa proprio del tale coi baffi arricciati e i Cheap Monday. Che poi a volere essere filologici, anche hipster è una parola antica, che risale agli anni trenta dei jazzisti, agli scrittori della beat generation, ma qui finisce che ci infiliamo in un discorso senza via d’uscita. Ad ogni modo, il punto a cui volevo arrivare è che la parola indie ha perso significato forse perché dopo quasi due decenni di crisi discografica è il mainstream che ha smesso di essere davvero tale. Se vogliamo storicizzare i decenni si può dire che il lungo decennio cominciato nel Duemila e non ancora finito è stato contraddistinto dalla fusione totale dei generi e dall’abbattimento degli steccati. Se uno pensa a uno dei gruppi ‘indie’ più significativi degli ultimi anni pensa agli Animal Collective, pensa a Merriweather Post Pavilion come disco che li ha fatti crescere anche dal punto di vista dei numeri, e quell’album è prodotto dalla stessa persona che produce i dischi di Cristina Aguileira. La differenza resta nella proposta e nelle attitudini, però si è creato un immenso Blob da cui ogni tanto escono fuori delle cose che dal basso arrivano a lambire territori vicini a quelli mainstream, così come sempre più spesso accade anche il contrario. Come le Haim che sono esattamente un prodotto dell’industria discografica, dopo solo un singolo già aprivano i concerti di Rihanna in giro per il mondo, però le trovi anche nei cartelloni dei festival più alternativi: dieci anni fa questo non sarebbe successo. C’erano più barriere. Nel frattempo invece l’underground, quello più puro, si è ancora più rinchiuso in se stesso, anche se pure lì ci sono delle cose che riescono ad emergere, con la differenza che anche lì ormai regna il conformismo, che per me è il vero tratto distintivo di questi ultimi anni. C’è conformismo in qualsiasi ambito: sia in quello pop che in quello underground.
E della tua esperienza personale alla 42 Records come etichetta indipendente che ci racconti? Ricollegandoci al discorso di questa contaminazione tra mainstream e underground, come vedresti un Colapesce che diventa mainstream?
Non è una cosa che rincorriamo, ma che neanche combattiamo.
In Italia secondo me il discorso è ancora diverso rispetto a quello che dicevo prima, perché da noi forse un vero star system non è mai esistito e la divisione non è tanto fra mainstream e underground ma tra musica che ha come fine ultimo quel genere di popolarità che in questo paese è data solo dalla televisione, e tutta quell’altra musica che invece vive grazie alla musica dal vivo, ai club, e ai festival, un carrozzone senza patria che parte da Brunori e finisce ai Father Murphy passando per gli In Zaire e i Colle Der Fomento. Per cui capita di vedere gente che magari è famosissima, e sempre presente in classifica, ma che in realtà non ha mercato quando si parla di tour, penso a molti fuori usciti da Amici e X Factor, ma non solo, e gente che in TV non ci va mai ma che quasi tutte le sere riempie locali da duemila persone. Un paradosso eterno.
Ti racconto una cosa successa l’anno scorso quando Lorenzo (Urciullo aka Colapesce) ha fatto le selezioni di Sanremo. La selezione finale di Sanremo è una roba tremenda, perché è veramente tipo X Factor: hai la base, devi guardare la telecamera per dimostrare che sei televisivo, mentre quelli della commissione ti guardano e capiscono se puoi andare bene o meno. La cosa divertente è che mentre Lorenzo aspettava di entrare arrivava tutta questa gente che era lì per fare la stessa cosa, molti dei quali arrivavano da cose tipo X Factor o da singoli super programmati dalle radio, e tutti non solo lo riconoscevano, ma lo trattavano quasi come una star, mentre lì forse era il meno conosciuto. E mentre noi eravamo lì che pensavamo: “Ma questi che cazzo ne sanno di Colapesce?”, tutti ci dicevano la stessa cosa: ”Ma come fai a fare così tante date? Beato te che fai i concerti”. È stato lì che ho capito che ormai si tratta proprio di universi paralleli.
E delle commistioni stile Ligabue e Brunori Sas che ci dici?
Quelle son cose giuste! Penso che per Brunori, o per i Tre Allegri, o per Le Luci prima con Jovanotti, andare a suonare in stadi da 90.000 persone sia un’opportunità. Una delle cose che secondo me uccide un po’ la musica indipendente italiana è il fatto che in questo momento non è che sia una grande prospettiva di crescita: per quanto tu possa ingrandirti e andare avanti ti ritroverai sempre a suonare nello stesso tipo di locali, stesso circuito e fino alla fine dei tuoi giorni. E invece suonare davanti a 100.000 persone è comunque una possibilità, fai una cosa che non avresti mai pensato di fare e già questo è abbastanza. Io poi credo che ogni tanto sia vitale cercare di stupire il proprio pubblico facendo l’esatto contrario di quello che il pubblico si aspetta da te. Per cui le radio, Sanremo, le aperture di questo tipo, sono tutte cose da fare. L’importante è che si facciano senza rinunciare alle proprie peculiarità e senza volersi omologare a tutti i costi.
Anche se forse il pezzo di Lorenzo per Sanremo era un po’ adattato ai gusti del pubblico, no?
Pensa che ivece lì in realtà abbiamo avuto una paranoia al contrario: Lorenzo ci ha proposto cinque canzoni, quattro di queste a Sanremo avrebbero fatto un figurone perché c’era il testo d’amore,forse erano anche più pop, mentre il brano che ha scelto, che abbiamo scelto, andava in tutt’altra direzione, a partire il testo politico ma per nulla consolatorio nei confronti della realtà che andava a descrivere. E poi quel pezzo lì ha il ritornello che arriva dopo due minuti e mezzo, e a Sanremo la prima cosa che ti dicono è: ritornello dopo 30 secondi, altrimenti è Premio Tenco! E noi andavamo lì da Premio Tenco, più che una sanremata stavamo facendo “l’anti-sanremata” e infatti il brano non è passato. E comunque per partecipare a Sanremo devi seguire delle regole, come per esempio l’uso dell’orchestra, per cui sei comunque vincolato a un certo tipo di scrittura.
A proposito di questo volevamo anche discutere un po’ della scena che tu dici italiana…
Aspetta, ma secondo te Brunori se fosse uscito 15 anni fa non era roba da Festivalbar piuttosto che da scena underground? E non lo dico in termini negativi. La cosa che mi ha colpito e per cui dico che è imploso un po’ tutto è che sono diventati alternativi prodotti come Brunori, che non sono altro che canzone italiana classica pop, mentre il mainstream non esiste. Il fatto che il successo Brunori o di Dente sia circoscritto comunque solo ad ambiti indie ti spiega proprio perché il sistema non funziona. Il problema non è il loro successo, ma il fatto che viene confinato in certi ambiti. Le major non hanno più avuto la capacità di scoprire artisti nuovi, dopo i Verdena e mettiamoci anche Cremonini non c’è nessuna produzione major che ha sfondato realmente, al di là dei rapper che comunque arrivano sempre dall’underground. Quello che dovrebbero fare le major lo hanno fatto le varie etichette che hanno prodotto Dente e Brunori, tant’è che poi le major magari producono i loro cloni. Oppure ci arrivano al terzo o al quarto disco come è successo quest’anno proprio con loro, o con Le Luci o con i No Braino.
Il punto è che in Italia il mercato musicale lo stanno cambiando quelle etichette che quando investono su un disco si giocano tutto mentre chi ha davvero le risorse non le investe quasi mai in modo adeguato.
In questa situazione vedi anche una crescita esponenziale dei cosiddetti ”addetti ai lavori”, non parliamo di te ovviamente ma anche di noi, le webzine che nascono improvvisamente, fotografi dappertutto, e via dicendo, tutto un sistema insomma che ha ridotto il pubblico alla fine?
Racconto un aneddoto. Un giorno un tizio mi ha chiesto il promo di un disco per fare una recensione e io ho gli ho domandato ingenuamente per chi scrivesse, lui mi ha risposto: ”Su Facebook! Io faccio status su facebook, e guarda che piglio 100 like!”. Non si capisce più dove finiscono gli addetti ai lavori – parola di merda, per altro – e dove comincia il pubblico. E poi soprattutto si crea anche una grande confusione tra cosa dovrebbe essere la critica e cosa no. Perché spesso si fa fatica a distinguerla dalla promozione. Parlare di musica è una cosa seria, e io su questo sono rigidissimo. Non è che perché hai 50 dischi in casa che sei bravo a far recensioni, io mi aspetto quando leggo una recensione di qualsiasi cosa di imparare da quello che leggo: voglio avere degli spunti che magari a me non sono venuti in mente.
Oggi poi noto una cosa: io spesso non mando comunicati stampa dei gruppi che promuoviamo, e lo faccio apposta. E lo faccio perché se poi devo ritrovare in 50 recensioni la roba che ho scritto io unita a due cazzate, è meglio non mandarli. Bisogna invece allontanarsi da questo sistema, racconta quello che vedi e che senti piuttosto. Con l’ultimo disco de I Cani abbiamo fatto quest’esperimento apposta: prima che uscisse il disco abbiamo pubblicato su DLSO il track by track dell’album per vedere poi in quante recensioni l’avremmo ritrovato citato paro paro.
È successo?
Certo, certo. Forse anche nella vostra (ride). Lo abbiamo notato in tutte le recensioni: c’era sempre almeno qualcosa preso di peso da lì.
Questo però è un problema che hanno messo in moto anche le etichette, il fatto che ti lancino il disco con il pdf promozionale e la presentazione vera e propria del disco…
Ma questa roba si fa da sempre in realtà. Però poi sta a te che scrivi, un conto è prendere spunto un altro è prendere interi periodi dal press kit e cambiare una parolina ogni tanto. A me, per dire, colpisce sempre quando vedi un disco che esce in streaming e 5 minuti dopo piovono le recensioni, ti chiedi: ma solo io c’ho bisogno di tempo? Io sono un istintivo, non credo a quelli che dicono “Per recensire un album bisogna ascoltarlo minimo cinque volte”, ma spesso ho la sensazione che si scriva di musica prima ancora di ascoltarla. Come se arrivare per primi fosse più importante di tutto il resto.
Hai ragione, però dall’altro lato oggi con lo streaming se non la fai subito invecchia subito.
Ma io capisco anche l’essere tempestivi in realtà. Quando qualche anno fa c’è stato il boom di Souncloud e Bandcamp, e hanno cominciato a mettere direttamente lì gli streaming, abbattendo il concetto di esclusiva, ho notato che immediatamente alcuni siti italiani che avevo trovato interessanti fino a quel momento per me hanno smesso di essere interessanti (ride). Perché vedi che dopo 5 minuti esce la stessa cosa dappertutto, con quelle tre righe di comunicato: okay non devi arrivare tre giorni dopo, però prenditi due ore. Anche perché se arrivi con una roba approfondita dai qualcosa in più a chi ti legge. Inventiamoci qualcosa, altrimenti diventa noioso e diventiamo tutti uguali! Bisogna trovare delle chiavi personali, ecco. Per dire io mi sono sempre divertito a fare le liste tipo “Le dieci cose che un giornalista musicale può o non può fare” maho deciso di smettere perché le liste stanno ammazzando la critica musicale! Sono divertenti, fanno piovere i like facili, ma se ne sta abusando troppo. Io sono ironico in tutto, nella vita proprio, figuriamoci se non lo sono nelle cose che scrivo, però cazzo quando leggo siti italiani che cominciano a usare senza tradurre espressioni che trovano su siti americani tipo buzzfeed…lì veramente divento Nanni Moretti e penso ”ma come cazzo parli?”. È come quando si diceva che il t9 ci avrebbe reso tutti stupidi, o come faccio io che da quando ho l’iPhone so che tanto c’è il correttore automatico che mi corregge quando sbaglio un sms, la critica musicale la vedo un po’ affogare nello stesso pantano. Stiamo diventando stupidi.
(a cura di Giovanna Taverni e Salvatore Sannino)