Se c’è una cosa che possiamo imparare dall’epidemia di ebola è che sia frutto di tremende disuguaglianze sociali ed economiche che abbiamo ignorato per troppo tempo, forse pensando che il mondo non fosse un unico posto dove convivere tutti e che bastasse voltarsi dall’altra parte. La mancanza di istruzione e di strutture sanitarie nell’Africa occidentale oggi è diventata un problema globale improvvisamente, come una nemesi che aleggia sulle nostre teste. Quello che avremmo potuto fare per eliminare queste disuguaglianze oggi rischia di diventare un tema urgente. In Nigeria per esempio, dove le cose vanno meglio, si è riuscito a contenere il contagio, mentre nei tre paesi che più stanno soffrendo l’epidemia (Liberia, Sierra Leone e Guinea) le forti disuguaglianze, la mancanza di un sistema sanitario forte, e la scarsità di informazioni hanno fatto salire il numero delle vittime a sfondare quota 4000. Questo è il momento in cui non dobbiamo più voltare gli occhi dall’altro lato.
”Non ci sono disuguaglianze sociali, di genere o di generazione in questa malattia. Le vittime sono lo specchio dell’umanità di sempre: uomini e donne, bambini e anziani, laici e chierici, ricchi e poveri, contadini o abitanti delle città.”, dicono due volontari italiani dell’associazione Medici con l’Africa Cuamm (potete trovare più informazioni qui per sostenerli o leggere cosa fanno), rendendo emblematico il fatto che stiamo parlando di un’epidemia che riguarda tutti. Sul NyTimes la giornalista americana Sheri Fink ha scritto che a differenza della crisi SARS che aveva toccato paesi ricchi, con ottima assistenza sanitaria e capaci di montare anche grandi campagne di informazione, stavolta la situazione è diversa. E descrive come l’Organizzazione Mondiale della Sanità si sia mossa poco e troppo tardi, anche a causa dei grandi tagli interni post-crisi.
Uno dei più grandi ostacoli per fermare l’epidemia è la mancanza di informazioni. Non deve essere facile fidarsi di un uomo vestito in tuta da capo a piedi, né rinunciare alla sepoltura di quelli che conosci per vederli cremare. E così alcuni negli ospedali (affollatissimi, tra l’altro, tanto che a volte devono rimandare a casa i malati) non ci vanno proprio, e provano ad affidarsi alla medicina tradizionale.
Con il ritmo di crescita che sta avendo ora l’epidemia (ogni due, tre settimane i numeri raddoppiano) si stima che a metà gennaio si potrebbe arrivare alla spaventosa cifra di 1,4 milioni di contagiati. Gli appelli in queste ore si stanno sprecando, soprattutto da parte di associazioni come Medici Senza Frontiere. ”Servono più centri di isolamento e personale qualificato”, racconta il medico Roberto Scaini di MSF, lamentando un certo isolamento internazionale sulla questione, la scarsità di strutture, il sovraffollamento, il disinteresse. Anche Gino Strada, da qualche giorno a Freetown (Sierra Leone), lamenta la scarsità di personale e strutture mentre fuori c’è un ritmo di 80-90 nuovi casi al giorno, e fa un appello affinché venga mandato in zona altro personale.
Avaaz, che in generale su altre questioni si limita alla raccolta delle firme, stavolta si appella a mobilitare le coscienze con gesti veri: diventa volontario, oppure dona (che con 10 euro ci comprano di tutto laggiù). Leggere i messaggi di persone che da tutto il mondo in questo momento sul sito di Avaaz chiedono come sia possibile raggiungere l’Ovest dell’Africa per aiutarlo ad uscire da questo dramma potrebbe sembrare una fantasticheria, invece è una cosa che sta succedendo davvero. Tecnici di laboratorio, paramedici, dottori, ingegneri ambientali e delle costruzioni, psicologi: tutto serve urgentemente e adesso.
La domanda da un milione di dollari è: da questa parte del mondo cosa dobbiamo fare? È pensabile che riusciremo a risolvere in un brevissimo tempo una situazione che per decenni abbiamo provato ad ignorare? Quando sentivamo evocare la mancanza di strutture sanitarie in qualche parte vaga dell’Africa era solo un’idea distante, che oggi sta diventando terribilmente vicina, tanto che quasi possiamo toccarla. Questo problema ci riguarda, ci riguarda così tanto che stavolta non possiamo scappare.
Il video qui sotto racconta quello che sta accadendo oggi sotto i nostri occhi. La parte positiva è che c’è chi si sta mobilitando a cambiare l’Africa occidentale, e se ci riuscirà non sarà solo una vittoria contro l’ebola.