Alla soglia dei diciotto anni, un video da proiettare alla festa di compleanno per raccontarsi ai propri invitati, con riprese nei contesti più disparati. C’è chi, amante dello urban, si fa riprendere sui binari di una linea ferroviaria poco prima che passi il treno, chi a bordo di un’auto d’epoca – rigorosamente riproduzione in vetroresina – attraversa le strade cittadine con tanto di corona da principessa alla Grace Kelly, chi – forse con mancanze che vanno oltre le questioni di buono o cattivo gusto – preferisce farsi immortalare nei panni del mafioso che protegge il suo casolare di campagna a colpi di lupara. Questo – per chi non avesse avuto la possibilità di vedere il servizio di Enrico Brizzi in onda a Le Iene – è il “prediciottesimo”, un nuovo business che attira a sé da un lato sempre più ragazzi e ragazze alla soglia della maggiore età, dall’altro sedicenti registi che, per cifre che oscillano da alcune centinaia ad alcune migliaia di euro, sono in grado di offrire ai loro clienti queste rare perle di cinematografia privata. Roba per adulti o quasi, visto il target.
Certo non c’è nulla di moralmente inaccettabile in un video da mostrare agli invitati della propria festa dei diciotto, Sweet Sixteen docet. Da questo punto di vista, l’unico offeso è l’occhio: non vi capiterà di vedere altro che ragazzine truccate volgarmente che imbracciano un bel mitra perché, diciamocelo, la soldatessa fa sangue o ragazzetti imberbi su auto sportive che non avrebbero potuto permettersi neppure monetizzando tutti e diciassette e mezzo i loro anni di vita già trascorsi; pellicole che – non c’è bisogno di essere giurati al Festival di Venezia per dirlo – di certo non rimarranno negli annali del cinema per la loro qualità. E anche in questo non ci sarebbe niente di sbagliato; basterebbe avere la fortuna di non essere invitati ad una di queste feste per non ritrovarsi offesi nei bulbi oculari, sebbene questi video nella stragrande maggioranza dei casi valicano i confini della festa per essere diffusi sui social network – Facebook in primis – e Youtube, a completa disposizione del mondo. Anche in questo, ovviamente, non c’è nulla di sbagliato: vivere in un paese relativamente libero come il nostro mi permette di scegliere cosa guardare in rete, e per esprimere il mio muto dissenso basta non guardare. I tassi di visualizzazione faranno il resto. Giusto?
Ed è proprio questo il punto della questione. È proprio questo lo sbagliato che, con tono moraleggiante, ho cercato fino ad ora senza fortuna in questi video. Quello che non va con i prediciottesimi è la ragione per cui vengono realizzati, e le interviste riportate dal servizio di Brizzi lo riportano in maniera impudica: ragazzi e ragazze – spesso con l’aiuto di genitori compiacenti che li finanziano – si prestano alla telecamera per diventare qualcuno. Quello che dovrebbe essere un prodotto realizzato per pochi intimi, da condividere con i propri cari in un momento di festa, diventa una vetrina di sé, un’icona di come vogliamo apparire agli altri, nella speranza che questa cada sotto gli occhi di qualcuno che conta.
Il miglioramento delle condizioni materiali di vita non passa più attraverso l’impegno di studio, la partecipazione al sociale, l’esperienza lavorativa ma attraverso l’esposizione amorale e muta – o quasi – del proprio corpo, come se un video scadente potesse essere il biglietto d’ingresso verso una vita migliore. E quale vita migliore poi, quella dello spettacolo: condurre (per i maschietti) e ballare in (per le femminucce) un varietà sembra l’unico modo per garantirsi quell’elezione sociale, quel futuro migliore che giustamente si desidera per sé, ma soprattutto per i propri figli. Inutile dire che il servizio di Brizzi mostra impietosamente come, nonostante l’origine umile, padri e madri siano disposti a sborsare centinaia di euro – fino a dimezzarsi lo stipendio – per la realizzazione di questi video, pur di garantire alla prole un tanto agognato lasciapassare per lo showbiz. Di certo ciascuno è libero di spendere il proprio denaro come vuole, (purché non decida di investire nel traffico della cocaina), e le velleità da ragazzi che sognano di sfondare un po’ dovunque non sono di certo un’invenzione del Terzo Millennio.
Ma il prediciottesimo è soltanto l’ultimo e più evidente sintomo di una serie di cambiamenti più gravi che stanno interessando il nostro mondo e il nostro Paese. Di certo è impressionante il vuoto culturale ed etico che spinge tante persone a credere che l’unica via per garantirsi un futuro migliore passi per il culto fascinoso dell’immagine e l’intrattenimento acritico e irresponsabile. In questa nazione a matriosca, c’è un’Italia che non crede nell’esistenza di una salvezza sociale ed economica che non passi per i media, l’Italia del televoto, del quiz a premi, delle veline, dell’informazione parziale e incompleta. L’Italia del “non so fare nulla ma se finisco in televisione qualcosa da fare me lo daranno”, l’Italia che finito il reality show camperò di serate in discoteca per dieci anni, poi sarà il momento di andare in pensione.
Inutile dire che Internet finalmente ci dà i mezzi necessari per realizzare – o almeno provare a realizzare – i desideri sostituitivi che network come Mediaset tanto si sono impegnati a instillare nelle menti di migliaia di persone che stanche morte dopo il lavoro, davanti ad Amici, avevano voglia di tutto tranne che di fare un minimo di riflessione su quello che stavano guardando. Dopo vent’anni di culi&tette, di must-have e di Emilio Fede, finalmente la rete ci dà l’opportunità di – o almeno provare a- essere noi stessi le star. Di certo non si critica la capacità di Internet di (cercare di) fare di noi ciò che vorremmo essere: la capacità della rete di tenere in contatto persone distanti tra loro centinaia di migliaia di chilometri, garantendo la circolazione libera e gratuita di informazioni e idee è una risorsa inestimabile per il genere umano, una conquista paragonabile all’invenzione della stampa a caratteri mobili. Quello che è mostruoso è l’uso che si può fare della rete quando di fronte allo schermo non ci sono utenti etici : il fenomeno del prediciottesimo da cui ho preso le mosse altro non è che l’ennesima realizzazione di un utilizzo distorto della rete, che degenera a vetrina di umanità in lotta per l’approvazione di sé in un’ammucchiata di “mi piace”, una battaglia tesa alla conquista del gradimento persona per persona. Non stiamo parlando di chi cerca di promuovere un prodotto o una serie di competenze, ma di un’armata di persone che, senza altro scopo se non la promozione di sé, attendono di essere apprezzati o notati dagli altri.
Morbosamente avvinghiati ad un profilo personale – poco importa di quale social network – che dovrebbe preservare la nostra identità, la nostra irrepetibilità di fronte ad una massa in cui temiamo di poterci dissolvere come composti chimici, non ci rendiamo neppure più conto, paradossalmente, di non essere che parte della tendenza, un altro tassello di quella che il Time ha recentemente definito, con una bella copertina, la “ME!ME!ME! generation”: tutti straordinari, tutti strepitosi dalla vita privata al lavoro, dagli interessi agli impegni, controllare il profilo Facebook per credere. Ma il desiderio di piacere così disperatamente agli altri, comporta dei rischi che vanno oltre la questione filosofica.
C’è un bellissimo discorso di Jonathan Franzen – autore di romanzi come Le Correzioni e Libertà – dal titolo Il dolore non vi ucciderà, che lo scrittore ha rivolto ai laureati del 2011 del Kenyon College per cerimonia della consegna dei titoli. Tema del discorso, la cultura del “mi piace” contrapposta alla cultura dell’amare, dove al gradimento passeggero si oppone un amore stabile, motivato, duraturo nel tempo. In particolare, lo scrittore mette in risalto come, quando non possiamo che esprimere gradimento invece che amore per qualcosa, il rischio diventa quello di essere disposti a tutto pur di ottenere l’apprezzamento, per quanto fugace e superficiale, degli altri. In rete si compare non tanto come siamo, né tanto come vorremmo essere, ma come pensiamo che gli altri ci vorrebbero. Quello che delinea Franzen è un mondo di uomini plagiati, sofferenti e incapaci di intraprendere alcunché senza l’approvazione altrui, e a chi ancora non condivide la gravità della situazione dico: ma ve lo immaginate un mondo in cui nessuno è in grado di assumersi la responsabilità del suo pensiero solo perché questo non è gradito agli altri? La schiavitù e la segregazione razziale, tanto per dirne un paio, sarebbero tuttora moneta corrente.
Dietro al bisogno di piacere agli altri che quest’epoca non si sforza di nascondere – e alla sua monetizzazione – si celano profonde insicurezze psicologiche che la mia laurea in lettere di certo non mi permette di esplorare nel profondo. Di certo il desiderio di essere accettati in un mondo in cui grossomodo nessuno si riconosce è evidente e diffuso; ma il mondo è diventato caotico e irriconoscibile proprio nel momento in cui noi abbiamo deciso di non riversarci più nel mondo stesso, nel momento in cui abbiamo deciso che nelle masse l’individuo si perde invece che rafforzare la sua volontà. Alle nostre spalle ci sono i fallimenti di un’epoca e gli orrori di quella che ha seguito: la forza della partecipazione e dello spirito di assemblea ha perso propulsione ormai trent’anni fa, gettandoci in un mondo dove avremmo potuto curarci dei nostri bisogni più materiali ed impellenti mentre qualcun altro si occupava di condurre il paese (e il mondo) al posto nostro, fornendoci disinteresse e divertissement sui media a cui conveniva aver perso la rotta.
Ora il nulla.
Se il vuoto culturale degli italiani è soltanto il combustile necessario a far di Internet una vetrina di non-persone in attesa di qualcosa o qualcuno, è proprio a partire dalla cultura che l’inversione di rotta può effettuarsi, e perché no, sfruttando la rete stessa come rampa di lancio del cambiamento. Internet può ancora diventare aggregante invece che disgregante, può ancora insegnare alla gente il valore del lavoro comune, dell’impegno, della ricerca approfondita, della condivisione (ma quella vera, non lo share molesto dei social network); anzi, la rete deve diventare portatrice di questi valori, pena la sua stessa scomparsa.
Senza utenti critici, Internet rischia di diventare una mera sala d’esposizione per imbecilli con bisogno d’attenzione; il riflesso di un Paese (e di un mondo) che non “ci piace” e che non vogliamo.