Il postmoderno ha finito per diventare un genere, un -ismo: postmodernismo per raccontare un disagio dell’essere umano di fronte al dramma della pubblicità, l’oggetto che perde le sue caratteristiche per diventare marca o brand. Una bottiglia non è più una bottiglia, come in certi quadri di nature morte, ma una Heineken o Peroni; una sigaretta è più particolare di una sigaretta. Dire ”fumo una Chesterfield” ci caratterizza di più come singoli esseri umani, del dire ”fumo una sigaretta”. La scelta delle parole, che potrebbe essere semplicemente spontanea e originale anche senza bisogno di citare una marca (es. ”fumo una bionda”), è diventata complice di questo corso d’aggiornamento pubblicitario collettivo. Il jeans è Levi’s, le cartine sono Rizla. ”Dammi una Rizla”, dammi una marca di quella speciale tipologia. Brand is the answer.
Nella musica succede spesso, Bob Dylan non parlava così, Leonard Cohen neanche. Questo linguaggio è venuto dopo: per esempio, i Baustelle, i Cani, e tutti i followers. ”Chiameremo nuovi numeri e avremo altri nomi” preconizzava Emidio Clementi. ”Cos’è un nome?”, diceva Shakespeare, raccontando la storia di una rosa che, se non si chiamasse rosa, conserverebbe lo stesso profumo. Eppure abbiamo bisogno di indicare i brand perchè tra loro hanno una diversità di specie. Una Peroni è infinitamente superiore a una Heineken. Il caffè Kimbo si mangia a colazione il Lavazza. Siamo stati costretti, insomma, a riconoscere la pubblicità; ad affibbiare stereotipi diversi a catene di produzione diverse.
La pubblicità domina questo tipo di mondo, e lo vediamo ovunque: se non nella letteratura, nella musica, e nella pratica quotidiana della conversazione, basta fare un giro sui siti di notizie o di video, per vedere quanto ne siamo invasi continuamente. Mentre scrivo, ho intorno: una Peroni (che è stato il pretesto della disquisizione di cui sopra), una Nastro Azzurro, uno smartphone Samsung, un pacco di tabacco Chesterfield rosso, un accendino Bic, una camicia Zara Trafaluc made in China, eccetera. Per quanto possa raccontare in giro di essere una persona sana dall’ossessione pubblicitaria, conservo anche io le mie debolezze, e ne sono inconsciamente vittima. Però mi piace ancora trovare poesie che siano libere da questi drammi postmoderni, e costrutti.
Il potere del brand. Ovvero il fascino culturale che subiamo ogni fottuta volta nel trattare con una certa diversità due oggetti fondamentalmente e profondamente uguali, per esempio una copia di un libro di DFW edita da Minimum Fax o edita da una qualunque altra casa editrice. Si tratta delle stesse identiche parole, tuttavia attribuiamo un valore di possesso superiore a quella MF. E’ una cosa che ha portato alla nascita dei radical chic, poi evoluti in hipster della prima ora. Ovvero, questa generazione di sottoculture è nata praticamente dal potere del brand. Il brand ha deciso che esistessero, e ne sono schiavi culturali.
”Sorseggio un Cabernet”: che ha un nome abbastanza esotico per essere un buon vino. La pratica di bere semplicemente vino è diventata schiava, anche se coi vini almeno c’è una certa profondità di marca, perchè il vino è il prodotto della terra e delle uve diverse. Tuttavia spesso usiamo le parole in un senso che ne enfatizzi il fascino di brand. Hemingway diceva che il vino è un segno di cultura di un popolo: sono d’accordo, ma lui non ci ha mai detto quale vino bere.
Andy Warhol aveva quel po’ di ragione sul futuro.