Il mare pulsante, il mare di Ulisse e di Herman Melville, un mare scherzoso di tante piccole onde, e gli spruzzi che ci sputava in faccia, tutto nello spettacolo del mare, nel grande spettacolo del mare, volubile mare che cambia vestito tante volte. Il mare di quel borghese di Conrad, e il mio proprio mare, fabbricato dalla mia immaginazione e dalla sua presenza.
Emanuel Carnevali aveva solo sedici anni, che nel ’14 dovevano valere molto di più dei nostri, quando decise di attraversare l’oceano per raggiungere le Americhe su quelle grandi navi. Fu un litigio, o credere nella propria gioventù, a portarlo nel nuovo mondo, attratto come doveva essere dal sogno americano e dalla sue potenzialità, di cui avrebbe visto la parte più marcia, fra lavori sporchi e nuove città in espansione che, poi, avrebbero riempito di appunti e poesie quella raccolta che sarebbe diventato Il Primo Dio. Sommerso, come i tanti partiti per una nuova vita, dai sobborghi e dai luoghi bui, un nuovo Rimbaud che qui, da noi, avrebbe conosciuto ben poca fortuna letteraria e tutt’ora non è ancora uscito dal suo oblio. Perché, dopotutto, il riconoscimento non è mai stato nel nostro dna. Sono ambienti oscuri, fatti di una poesia sferzante e disincantata, quelli di Carnevali, ripresi dalla voce di Emidio Clementi, a cui aveva già dedicato Il primo Dio nell’album Lungo i bordi, e dalle composizioni musicali di Corrado Nuccini e Emanuele Reververi. Notturno Americano (che uscirà in marzo per Santeria), a cui si aggiunge la parte visuale di Gianluca Costantini (tutte le tavole le puoi trovare qui), non è un concerto dei Massimo Volume né dei Giardini di Mirò, ma la confluenza del loro passato e presente, nella parte più buia, in una lettura profonda e passionale, a tratti tragica e ossessiva come i testi di questo poeta così poco conosciuto. Poco importa se la parte musicale sprofonda nella voce di Clementi, se il locale era troppo pieno e caldo e, probabilmente, meriterebbe un posto più adeguato, anche quello, in qualche modo, rende più facile l’immedesimazione nelle cucine dei Camerieri, oscillanti fra un tavolo e l’altro, fra le urla del capo cuoco e un bambino bagnato.
Quello a cui assistiamo è una simbiosi totale fra Clementi e Carnevali, che ha più della semplice recitazione, in cui si sente l’ammirazione e l’influenza che il poeta deve aver esercitato nell’educazione creativa del cantante emiliano. La voce è sferzante e spietata, accompagnata da una musica che sa che il suo ruolo di accompagnamento non può essere banale, ma dev’essere quel suono di sottofondo che più che accompagnare deve restituire l’ambiente delle poesie, così alla chitarra e al violino si accompagnano basi contrastanti, bambini urlanti e suoni del traffico, per riportare al massimo quella parte bruciata di New York, terra che raccoglie i ribelli, gli infelici, i miserabili; la terra delle imprese puerili e magnifiche: gli ingenui grattacieli – candele votive sulla punta della supina Manhattan […] America tremendamente laboriosa, costruttrice di città meccaniche. È la terra dal grido sgraziato di un’acerba gioventù.
L’esperienza che viviamo è, così, una caduta nell’abisso e nelle maschere, scoprendo qualcosa di nuovo e costringendoci a fermarci, sulle nostre idee di gloria e successo, su quel sogno americano che, ancora troppo, assumiamo ad esempio. Una situazione particolare, che si situa a metà fra il reading e il concerto, in cui sono le parole a movimentare l’animo e condurre il ritmo. A Clementi, Nuccini e Reverberi va il merito di farci riscoprire Carnevali, nel modo più appropriato, immerso nel caos e nel rumore, che una lettura individuale non può restituire. Perché anche un progetto di questo tipo ha qualcosa a che fare con chi parte per un’idea o per un sogno, partigiano anche lui di una nuova visione, partigiani anche loro, a credere ancora nella trasmissione di una cultura che, nell’anonimato, rischierebbe di scomparire.
Foto di Alessia Naccarato