Forse perché lo incrociamo a ogni angolo di finesterre, o forse per l’illusione dell’orizzonte, o ancora per una primordiale incapacità umana a superare i confini con altri mezzi che non siano quelli di navigare per mari e oceani, ma il mare è sempre stato un elemento fondamentale per la narrazione, lo specchio dei limiti e assieme del superamento di questi limiti, della sommossa e dell’irrequietezza sotto forma di tempesta, e della gravità della pace quando appare calmo e innocuo, e l’unico pericolo diventa una lucentezza che attira meduse. ”Navigando sul mare color del vino, verso genti straniere’‘ narra l’Odissea, il calvario del lungo viaggio di Ulisse, personaggio fondante di una mitologia del mare che possiede pure le sue proprie divinità. Perché in quel mare s’incarna tutto, lo spirito del navigatore che attraversa interi continenti a bordo di una nave, del ricercatore, e la curiosità umana che ci spinge verso l’altrove. Ma anche, come ricorda La Rochefoucauld, l’amore stesso, tra tempeste, scogli, naufragi e capricci.
”Homme libre, toujours tu chériras la mer!’‘, cantava Charles Baudelaire. E in questo canto s’incrocia quanto anelito di libertà rappresenti il mare, espressione di quella ricerca di mondi nuovi e immaginari mai vissuti. Il movimento è tutto nell’uomo. Nell’epopea del romanticismo inglese il mare s’arrabbia, e diventa moto infinito nei dipinti di Turner, e i suoi amanti sono aspiranti pirati che si nutrono di vecchi racconti di viaggi. Lord Byron addirittura conversa con il mare: ”vi è una compagnia che nessuno può turbare / presso il mare profondo, / e una musica nel suo ruggito”. L’uomo solo, nel mare, ritrova direzione, come una bussola interiore che riacqueta lo spirito più irrequieto e selvaggio. Anche quando uno dei grandi narratori del mare, Conrad, ammette che: ”il mare non è mai stato amico dell’uomo, tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza’‘. E la poesia è contemplatrice di questo movimento di onde, di navi, di marinai, di uccelli che fendono sul mare. Tra questi, l’albatro diventa complice del mare. L’albatro ucciso dal vecchio marinaio nella ballata di Coleridge, e l’albatro-poeta di Baudelaire: una vera e propria nuova divinità del mare che succede a quelle greche. Del resto il mare è così ingrato verso i suoi poeti che annega Percy Bysshe Shelley nelle acque del mare italiano a Lerici a soli trent’anni. Proprio uno di quelli che il mare lo aveva cantato.
Il mare come squallida avventura possiede ancora un’attrazione nei racconti di viaggi esotici e isole deserte (la storia di Robinson Crusoe ne è un’espressione). Ma al di là dell’avventura e dei capitani coraggiosi narrati da Jules Verne, l’elemento che accomuna il mare e la sua narrazione è quello del suo fascino. Melville, marinaio vero, racconta il richiamo del mare in Moby Dick attraverso le parole di Ismaele, e ”se solo lo sapessero” tutti gli uomini cos’è quel richiamo che fa fuggire la rivoltella. ”Ma i veri viaggiatori partono per partire”, e perché così fuggono da tutto verso l’altrove, che poi l’altrove sia lo stesso che qui poco importa. L’importante è fuggire quella malattia del tempo che ti si incava nella bocca e nelle cervella, e a tratti il mare regala questo miracolo. Che poi il mare regali monomanie straordinarie che ci distraggono ne è la prova il vecchio di Hemingway ossessionato dalla pesca.
E per finire, c’è chi il mare lo osserva, come il maestro Eugenio Montale che se ne ubriaca: ”Antico, sono ubriacato dalla voce / ch’esce dalle tue bocche”.
In alto: Joseph Turner, Fishermen at Sea