Opinione comune sostiene che il lavoro nobiliti l’uomo e degrada ciascun “nullafacente” ai livelli più infimi della società, reietto da guardare con disprezzo e sospetto. Ma quanto c’è realmente di così nobile in un’attività che sottrae all’essere umano la maggior parte della sua vita, impedendo il naturale sviluppo delle sue attitudini morali e intellettuali?
È questa, in un’accezione forse anche piuttosto semplicistica, la domanda attorno a cui ruota “Il diritto alla pigrizia” (o in altre edizioni “Il diritto all’ozio”), pamphlet ironico e polemico pubblicato nel 1887, con cui Paul Lafargue, genero del ben più noto Karl Marx, espone in maniera lucida il paradosso di una società interamente sottomessa al mito del lavoro (“Una strana follia si è impadronita delle classi lavoratrici nelle nazioni ove regna la civiltà capitalistica… Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie.”).
Sfruttando il suo sottile sarcasmo, Lafargue seziona e distrugge alcuni dei dogmi fondamentali della sempre più forte società borghese, in cui intere classi sociali si ritrovano costrette a sopportare una vita fatta di ritmi ossessivi, schiaccianti e ripetitivi per produrre, in quantità finanche eccessive, merci ad esclusivo uso e consumo di poche improduttive categorie.
Lafargue è impietoso, non ha timore di definire il lavoro come “il più terribile flagello che abbia mai colpito l’umanità”, ma non lo fa, come invece farebbe presupporre il titolo dell’opera, come mera esaltazione dello spirito pigro, bensì puntando l’indice contro un sistema che ha trasformato un’attività comunque necessaria, ma limitabile a sole tre ore al giorno, in una prigionia che finisce per distruggere l’individuo.
Il piano su cui poggia l’intera dissertazione non è astratto e teorico, ma fa leva su aspetti pratici, legati alla salvaguardia della salute, alla necessità di riportare le persone su ritmi di vita più consoni alla dimensione umana, in cui trovino spazio anche i piaceri più terreni, le attitudini personali e lo sviluppo intellettuale: in altre parole, che si ritorni alla centralità dell’uomo e della sua qualità di vita.
Uomini, donne e persino bambini vengono derubati ogni giorno di 12, 14 se non 16 ore della propria vita per i lavori più avvilenti e duri, senza alcuna speranza di veder migliorare la propria condizione, e non basta l’introduzione delle miracolose macchine perché la situazione si capovolga (“Ma cosa vedono i nostri occhi? Via via che la macchina si perfeziona e annienta il lavoro dell’uomo, con una rapidità e precisione che crescono senza posa, l’operaio invece di prolungare altrettanto il proprio riposo, raddoppia l’ardore, come se volesse rivaleggiare con la macchina”).
Il “diritto al lavoro” si trasforma così in “diritto alla miseria” (“Lavorate, lavorate, proletari, per aumentare il patrimonio sociale e le vostre miserie individuali; lavorate, lavorate, affinché , diventando più poveri, abbiate maggiori motivi per lavorare ed essere miserabili”) finendo per annientare, in un terribile circolo vizioso, tutte quelle che dovrebbero essere le caratteristiche peculiari dell’essere umano.
Uno scritto che, letto a distanza di oltre cento anni dalla sua prima pubblicazione e contestualizzato in un’epoca come la nostra, fondata sulla precarietà delle classi medio-basse, e in particolare dei giovani, sulle continue vessazioni che queste sono ancora costrette a subire e sull’ancora imperante religione del lavoro come unica ragione di vita, si rivela drammaticamente attuale e indispensabile affinché qualcuno possa aprire gli occhi sulle catene invisibili che ci imprigionano nella nostra “modernissima” società.
“Una strana follia si è impadronita delle classi lavoratrici nelle nazioni ove regna la civiltà capitalistica…Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Invece di reagire contro una tale aberrazione mentale, i preti, gli economisti, i moralisti hanno santificato il lavoro. Uomini ciechi e limitati, essi vogliono essere più savi del loro Dio; deboli e spregevoli, hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto.
Io, che non mi professo cristiano, economista o moralista, non posso fare a meno di mettere a confronto il loro giudizio con quello del loro Dio: i precetti della loro morale religiosa, economica e libero-pensatrice, con le spaventose conseguenze del lavoro nella società capitalistica.
In essa, il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione organica.”