FOTO A CURA DI LISA BARBIERI
Questa settimana mi è capitato qualcosa che non succedeva da mesi, forse anni.
Ho assistito ad un concerto bello. Bello nel senso più rotondo e completo del termine. Non di quelle serate ti trascini all’uscita nel freddo novembrino già incipiente, la maglia madida di sudore ancora incollata al petto, e sai che tua madre aveva ragione riguardo a portarsi qualcosa di cambio, mentre qualcuno ti chiede com’è stato e tu: “Niente male”: sai che ti sei divertito solo perché sapevi i pezzi, la birra costava poco e la ragazza figa di fianco a te ti ha sfiorato un paio di volte mentre cercava la mano del suo ragazzo per limonarselo di brutto.
Certo la serata prometteva bene fin dall’inizio, e non solo per aver centrato al primo colpo la famigerata uscita 7bis della tangenziale di Bologna in direzione Estragon: in cartellone Local Natives che, dopo un album d’esordio assolutamente degno di memoria, si sono rivelati sopravvissuti d’eccellenza alla sindrome da secondo disco con l’acclamatissimo Hummingbird, ottima uscita di quest’anno con alle spalle una produzione targata National, almeno uno di loro, uno dei gemelli brutti credo. In apertura, Cloud Control, una band che riesce al contempo a scrivere pezzi strutturati, far ballare la gente e ad avere un sound realmente innovativo senza usare neanche un misero computer. Abbastanza per una nomina al Nobel per la Pace.
Fino ad ora non ho utilizzato termini da Critica del Giudizio, me ne rendo conto, non sono ritardato. Anzi, proprio questo è lo scopo di quest’articolo: cercare di estrapolare quello che ha reso questo concerto un’esperienza appagante e soddisfacente pressoché sotto ogni punto di vista, circoscrivere i punti forti di un’esibizione per stilare un vademecum che – lungi dal volersi imporre positivamente come scienza infusa – offra un qualche spunto per rendere questi incontri di scambio culturale (in cui si scambia denaro non spicciolo con cultura spicciola) più riusciti per tutti.
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Per chi è sul palco
1) Non strafare su disco
Comincio subito con il punto più controverso.
Sono finiti i tempi in cui Ricky Martin e Britney Spears facevano miliardi stando seduti sul divano, i dischi non sono più la fonte di reddito principale della stragrande maggioranza dei musicisti, sostituita (inch’allah) dalle esibizioni dal vivo. Con l’intervento della rete, l’album diventa quasi un biglietto da visita, un’occasione per presentare un progetto in attesa che il circo arrivi in città, che si possa ripagare il musicista per il furto telematico con il biglietto di un concerto. Ecco perché è importante non promettere su disco niente di più di quello che poi non si sarà costretti a ripetere live: niente super-produzioni milionarie, niente futili sovraincisioni barocche, niente effetti speciali alla Dragonforce con chitarre in tapping velocizzate a computer. Insomma, non promettere niente di quello che non si può fare davvero con quello che si ha, e questo gli album di Local Natives e Cloud Control lo rispettano in pieno, anzi forse fin troppo, presentandosi con due prodotti che, al di là della qualità dei brani, non risplendono certo per intensità di esecuzione o pienezza del sound.
Riassumendo: in caso di fine della nostra civiltà saranno i dischi a rimanere in perenne ricordo per chi verrà dopo di noi, ma questo non toglie che per sconvolgere il pubblico con la forza animale di un’esibizione vivente, non c’è niente di meglio che presentarsi con un disco smortino. Sempre che qualcuno si presenti tra il pubblico, a questo punto.
2) Usare tutti gli arti disponibili
Il numero dei membri di una band è limitato, non è una novità.
Per avere un sound il più ricco possibile, tutti devono dare il massimo. Prendete ad esempio i Local Natives, che da bravi stacanovisti hanno sfruttato ogni arto possibile immaginabile per mandare in visibilio il loro pubblico questo sabato a Bologna. Momento clou: Kelcey Ayer che si ritrova lead singer mentre con una mano prosegue la sua progressione di accordi e con l’altra tortura un’accoppiata di timpano&charlie lasciata accanto a lui senza mai perdere il tempo, mai una nota stonata. Nello spirito della migliore one man band, ma moltiplicata per cinque, ciascuno deve dare il massimo per garantire una sonorità piena e corposa al prodotto della band: senza trasformarsi in fenomeno da baraccone, i Natives riescono a sfruttare al meglio la già ricca formazione.
Scelta ammirevole: quattro su cinque cantano. Vi lascio soltanto immaginare il gioco di armonizzazioni che si offre a loro disposizione. Brividi per i riarrangiamenti vocali di parte del loro materiale: rivalorizzare così una serie di momenti canori arricchisce i brani senza snaturarli, offrendo dal vivo una di quelle necessità di studio che più delle volte si tralascia sul palco, la ricerca dell’armonia extra per sostenere l’impalcatura principale del brano.
Pelle d’oca.
Altro che Canzonissima.
3) Polistrumentismo non molesto
Quando non è sfoggio gratuito di abilità, e quindi ufficialmente non-molesto, non c’è nulla di meglio del polistrumentismo diffuso tra i membri di una band. In questo i cari Natives si sono dimostrati maestri: così come entrambi i chitarristi e Nik Ewing (basso) hanno saputo dimostrarsi uno dopo l’altro buoni tastieristi, allo stesso modo Ayer si è dimostrato buon chitarrista, senza contare l’avvicendamento costante alla voce principale tra quest’ultimo e Taylor Rice. In questa maniera non solo i timbri dei pezzi cambiano costantemente, ma ciascuno è in grado di sopperire alle mancanze degli altri a seconda del brano da eseguire, garantendo una qualità costante a tutto il concerto. Ma le possibilità del polistrumentismo sono infinite: dove sta scritto che non si possano abbandonare tutte le chitarre per gettarsi su un brano di sole tastiere o viceversa?
In questi tempi di crisi, meglio essere choosy.
4) Il Pubblico & te
Che cos’hanno concerti e spettacoli teatrali in comune? Risposta esatta, il palco, dieci punti a Grifondoro. Se avessi voluto ascoltare e basta, me ne sarei rimasto a casa, ma per fortuna che un concerto richiede anche il secondo senso migliore del mondo: la vista. Certo, a giudicare da Hummingbird non è che mi aspettassi un’esibizione hendrixiana, anzi. Eppure, anche in questo i cinque californiani sono riusciti a sorprendermi, ed io scemo che mi aspettavo qualcosa di un po’ rigido, un po’ freddo, un po’ british come suggeriva il loro sound. Rice & Ayer incantano il pubblico, uno gettandosi sulla chitarra con un’intensità che le registrazioni in studio non lasciavano neppure immaginare, l’altro ingigantendo le sonorità della band sul timpano appositamente affiancatogli, mentre Ewing si limita a scuotere gli animi sfoggiando una camicia a nuvolette rosa che ricorda la fantasia della grafica del disco.
Certo il dialogo col pubblico è limitato dallo scoglio linguistico, si racconta che i cinque furono rimandati tutti ai corsi estivi per i pessimi voti in italiano. Ma cosa volete farci, fossero stati davvero bravi ora sarebbero guide turistiche a Roma, invece che sprecare così la loro vita, ma noi li perdoniamo: si risolve tutto in risate quando Ayer tenta di comunicare col pubblico, fallendo miseramente. Poi esistono altre tecniche non verbali per comunicare: vedi l’ancora incompreso ma emotivamente potentissimo battimani, su cui farò luce più avanti.
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Per chi è sotto il palco
1) Abbigliamento
Io capisco che cuffia di lana ed eschimo siano proprio un bell’abbinamento, soprattutto se sfoggiate una barba leonina e due baffi da Kaiser Guglielmo (revival 70’s del XIX secolo). Ma se ci troviamo in un locale piccolo e affollato, ragazzi, spendeteli quei due euro di guardaroba. È una sofferenza vedervi con il ciuffo incollato alla fronte per il sudore, i mustacchi madidi, le barbe fradicie. Lo stesso valga per le giacche di pelle per le donne: l’unica che riesce a sopportare certe temperature con questo capo indosso è Gianna Nannini, lo sapete.
Ché poi quando uscite vi ammalate, come dicevo all’inizio di quest’articolo.
Liberatevi dei vostri capi invernali trendy, non credo si presenteranno gli osservatori esterni di Instagram per offrirvi un lavoro come modello/a da social network.
Cos’è? Vi vergognate di far sapere al mondo che avete acquistato una maglietta dei Joy Division? Non c’è problema, i vostri amici vi vorranno bene per quello che siete, anche se supportate band sconosciute e senza speranza come loro. Non è che solo perché muore il frontman allora la band non ha più bisogno del calore dei suoi fans: support the scene forever!
2) Tecnologia
Un concerto è un evento irripetibile. Ma il fatto che sia una performance unica non ci autorizza a registrarne ogni singolo istante sul cellulare, anzi proprio per questo preferirei poter godere della vista del palco piuttosto che di una siepe di schermi luminosi protesi nell’inutile tentativo di realizzare video che non traballino troppo. Non siamo al Future Show.
Anche perché sapete che fine fanno questi video, no? Dimenticatoio. O peggio pubblicati su Youtube, sfocati e fluttuanti, con la voce di quello accanto che canta a squarciagola a coprire tutto. Proprio un bel regalo per quelli che dal Bangladesh vogliono farsi un’idea di cosa sia un concerto dei Local Natives.
3) Battimani & Dancing
Ora starete pensando, “mamma mia, questo qua è così stronzo che non gli va bene nemmeno la gente che balla ai concerti”. Sbagliato. Ho anche io un’anima teen che non vedo l’ora di scatenare, e non c’è niente di meglio di un concerto coinvolgente che riesca a farti muovere (vedi il punto 5 della sezione precedente, “Il pubblico & te”). Il battimani è un classico: fa sentire chiunque abbia il minimo di coordinazione richiesto per far parte attivamente dei primati una parte attiva del processo creativo, e poi siamo franchi: certi battimani nei passaggi più emotional dei pezzi ti fanno proprio commuovere. Ovvimente gioca un ruolo fondamentale la capacità della band di essere trascinatrice, ma se questa si dimostra fredda come una vecchia strega e la musica riesce a fare lo stesso il suo giusto effetto scuoti-culo allora siamo sulla strada giusta, il repertorio spacca.
C’è poi una frangia extraparlamentare che crede che alcuni concerti siano da cogliere in frammenti qua e là durante un pogo. Ma questa è un’altra storia.
4) Alcool and drugs abuse
Lo ammetto, una volta ho assunto droghe per sopportare un concerto dei Portishead.
Ero ad un festival, di lì a poco sarebbero saliti sul palco gli Arcade Fire e l’attesa era a dir poco snervate. Per fortuna che quei ragazzi ho sentito che vanno ancora abbastanza forte, so che nei vostri cuoricini mi avete già perdonato. Nonostante questo, non capisco perché a questo genere di eventi il più simpatico della sala debba sempre collassarti addosso, fatto fino alle orecchie come una pigna, per trascorrere il resto del concerto ad osservare attentamente le scarpe di quelli che lo circondano da semisvenuto, su un parterre così lindo che neanche i filippini di Casa Vianello avrebbero potuto fare di meglio. Rimane poi il grande mistero di come-ci-si-ubriaca-a-certi-concerti. Mica i concerti dei Gogol Bordello o di Babaman. Parlo dei concerti con gli uomini della sorveglianza pelati (e quindi seri, alla Bruce Willis) che frugano nella borsa delle ragazze anche se sono carine, dei concerti con la birra slavata a cinque euro al bicchiere e così via. Cari ubriachi da concerto, in bilico perenne tra la simulazione e la sincera sbronza leggera, stimo la vostra leggerezza d’animo, ma niente vomito sulle clarks.
Aspettate almeno che finisca il concerto.
bravo come sempre