Uno degli incontri più attesi al XXVI Salone Internazionale del Libro si è svolto sabato scorso in un affollatissimo Centro Congressi del Lingotto, dove erano presenti Eugenio Scalfari, Roberto Saviano, Bill Emmott ed Umberto Eco. Gli ospiti sono stati chiamati a presiedere all’Auditorium di Renzo Piano per dare voce a I dialoghi de l’Espresso, una serie di incontri che ha visto coinvolti personaggi noti e autorevoli e docenti, ma in primis gli studenti universitari degli atenei di tutta Italia. Il giornalista ed inviato Lirio Abbate ed il direttore dell’Espresso, Bruno Manfellotto spiegano che l’iniziativa ha portato alla luce attraverso il pensiero dei semplici cittadini temi di grande attualità. A Napoli è stato chiesto ai ragazzi quali potessero essere buone strategie contro l’inquinamento e a Milano ci si è domandati come contrastare il problema della corruzione, ma queste sono solo alcune delle tante questioni trattate.
Sale sul palco Martina, studentessa di Scienze Politiche presso l’Università Statale di Milano e alunna di Nando dalla Chiesa, che insieme ad altri giovani fa parte della redazione di Stampo Antimafioso e si rivolge ai quattro esperti: “Noi giovani che non vogliamo dover andare via dall’Italia pur continuando a sostenere i nostri diritti civili cosa dobbiamo fare?” Interviene per primo Eugenio Scalfari che ci porta a riflettere su La questione morale, la ormai storica intervista rilasciata da Enrico Berlinguer al sopracitato Scalfari il 28 luglio del 1981. I partiti oggi come allora hanno occupato le istituzioni. Affinché sia possibile un risanamento è necessario che esse vengano “disoccupate” dai partiti. La prima dell’elenco è il Parlamento, votato da tutti i cittadini, nessuno esente. E’ il paese, o perlomeno una parte notevole del paese che è fatta da persone che ancora credono alla favola che i demagoghi raccontano dell’asino che non vola per colpa dei magistrati e dei comunisti. “Gli italiani sono uno dei popoli più furbi al mondo” – continua Scalfari – “ma furbo non è sinonimo di intelligente. Ulisse era maestro d’inganni nell’Iliade e nell’Odissea diventa maestro di saggezza, perché era cambiato attraverso un viaggio. I furbi diventano uno stato dello Stato, però tutto ciò è strano, è un controsenso perché gli italiani non amano lo Stato”. E conclude il pensiero dicendo: “Quando diciamo che questa classe dirigente fa schifo dobbiamo aggiungere, anche noi” e a quest’affermazione segue un lungo applauso.
La parola passa poi a Roberto Saviano che, dopo un primo istante di silenzio illuminato a giorno dai flash dei fotografi, si aggancia al discorso di Scalfari, a quella logica dei furbi che sta anche alla base delle regole delle organizzazioni criminali, sottolineando che non si possano definire leggi. “La furbizia è il talento che si ha per aggirare un vincolo. Quello che molti forse ancora non hanno capito è che le mafie non sono l’anti-Stato, loro si sentono lo Stato, ideale, se così possiamo chiamarlo, che sta prendendo piede anche in alcune imprese. E’ il capitalismo che si va mafiosizzando”. E’ ancora meno chiaro ai più come personaggi del calibro di Cuffaro o Cosentino decidano di andare in galera, senza dimostrarsi deboli. “Un politico che va in galera è un politico potentissimo”, scandisce a denti stretti Saviano. Un altro punto che tratta lo scrittore napoletano riguarda il gioco d’azzardo. L’Italia secondo una classifica sarebbe il primo paese in Europa, il quarto al mondo e sedici volte Las Vegas. “Non si scommette più su se stessi, ma sulla fortuna”. Non risponde alla domanda della ragazza salita sul palco, ma ci lascia con una citazione di Danilo Dolci che è solito ripetere: “Ciascuno cresce solo se sognato”.
Un nuovo quesito viene, invece, posto da Bruno Manfellotto a Bill Emmott, direttore dell’Economist dal 1993 al 2006 e autore del documentario Girlfriend in a Coma che ha sollevato un grande polverone prima delle elezioni politiche di febbraio. “Quanto è radicata la realtà criminale italiana e come viene percepito il fenomeno Grillo da un osservatorio straniero, nello specifico quello britannico?” chiede il direttore di L’Espresso. Emmott senza tergiversare, risponde divertendo il pubblico: “Mi sento un “extraterrestrio”, capisco bene l’italiano, lo sto imparando, ma non capisco l’Italia”. Quello che Emmott ha potuto constatare in questo giro d’Italia attraverso le tappe nelle università è che la speranza e l’energia da parte dei ragazzi è moltissima, in contraddizione con la grande ignavia degli italiani, quelli medi e non solo. Mentre racconta, servendosi di una traduttrice, la metafora di Girlfriend in a Coma – ma non ce ne sarebbe bisogno perché il suo è un inglese cristallino e l’italiano non è certamente dei più stentati – prende a prestito inaspettatamente un detto popolare che riempie la sala in un fragore d’applausi: “Il pesce puzza dalla testa”. I riferimenti ai responsabili della crisi in Italia sono inequivocabili, provengono dai piani alti, ma c’è da dire che è anche difficile capire le persone che compongono questa nazione.
All’uscita del documentario, Emmott insieme alla giornalista Annalisa Piras è stato accusato di essere un montiano, se lo aspettava essendo un economista, ma la cosa che è diventata man mano sempre più percepibile verso il 24-25 febbraio scorsi è che, non solo gli italiani hanno smesso di credere nello Stato e nelle istituzioni, ma che un po’ tutti sono diventati grillini. “Se si guarda quello che hanno fatto il Pd e il Pdl mi sembra che l’unica luce di positività in questa stanza buia sia rappresentata dal Movimento 5 Stelle” sostiene con franchezza Emmott e un consenso incerto si solleva dal pubblico – i grillini sono dappertutto, ci si guarda intorno per capire chi siano e schedarli mentalmente – ma rettifica: “Ho sempre pensato che è meglio ascoltare che parlare e Grillo parla molto, troppo, però attualmente, a mio vedere, il Movimento 5 Stelle è l’unico a dar segno di ascoltare e voler fare un cambiamento”. E finalmente qualcuno, il rigoroso Emmott, risponde alla domanda di Martina con un consiglio rivolto ai giovani cervelli in fuga: “Sul piano personale dovete scegliere, se ne avete la possibilità, di andare all’estero, ma insieme, collettivamente dovete unire le forze per produrre questo cambiamento”. Rassicurante o meno, la criminalità organizzata non è compresa in profondità al di fuori dell’Italia e così conclude il suo intervento “marziano”.
Le ultime parole, invece, toccano ad Umberto Eco che focalizza la sua attenzione sul problema della riorganizzazione del sistema universitario. Riprende una frase dell’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti che in uno dei tanti momenti di “slide to unlock” disse: “con la cultura non si mangia”. Da studentessa di Lettere è sempre d’impatto risentirla, ma poi penso che a dirla è stata Tremonti, respiro profondamente e vado avanti. “Può darsi che Tremonti sia intelligente, ma non è furbo” continua Eco “perché la Francia sulla cultura ci mangia moltissimo, lo stesso vale per New York, Berlino e così via, eppure non capiamo perché noi con Roma, Venezia, Firenze abbiamo un numero inferiore di turisti rispetto ad altri paesi che non hanno nulla in più di noi. Siamo un paese con molto metano, ma senza Enrico Mattei”.
Il terrore dei cervelli in fuga dovrebbe ridimensionarsi visto che chi va all’estero dopo poco tempo ottiene una cattedra superando in graduatoria molto spesso i locali, ma allora perché qui non è possibile? Semplice la spiegazione: la crisi vera e propria non è né quella della scuola elementare, né in parte quella dell’università bensì si deve parlare di crisi della scuola media superiore. Il liceo all’italiana, quello classico e scientifico, una volta preparava e ancora oggi per certe forme prepara di più di uno studente che esce dal college americano, che acquisisce un Bachelor of Arts. Il tre-più-due è un’utopia riformata per permettere di dare una cultura maggiore a più persone, il problema è che dopo tre anni non si può essere ancora considerati dottori. Bisogna perciò insistere sulla frequenza, sugli esami e investire sui collegi universitari.
La lectio magistralis si conclude in uno scroscio di applausi e ci auguriamo che questi dialoghi, teoricamente ineccepibili, siano serviti come ammonimento a non andarsene e a lottare, rimanendo intransigenti contro una classe politica sorda.