Quando ti ritrovi davanti al successo, la seconda prova è quella più difficile. Come una bomba che esplodendo non lascia più nulla nei paraggi e dentro di sé, le strade che si aprono sono due, continuare come si è sempre fatto, mantenendo lo stile che ti aveva fatto scalare le classifiche, o raccogliere i pezzi che sono rimasti e ricostruirsi di nuovo, affrontando il difficile compito di riuscire a migliorare ancora. Con Glamour, Niccolò Contessa e i suoi Cani, scelgono di affrontare la seconda strada, votandosi a uno stile più complicato e molto diverso da quel Sorprendente Album d’esordio di due anni fa. I Cani del primo disco, che ti colpiva sin dal primo ascolto per il ritmo scandito da testi di facile memorizzazione, si erano presentati come alter ego pop di una scena alternativa italiana storicamente cupa e complicata, ritagliandosi un posto di rilievo soprattutto fra i più giovani che, facendosi trasportare dalla novità del momento, riempivano quei locali da sempre abituati a un pubblico profondamente selezionato. Glamour, a sorpresa, tradisce in parte quella vena da “ennesimo gruppo pop romano” per inoltrarsi in uno stile diverso che paga il prezzo del passato con cui deve fare i conti, di influenze troppo ampie per potersi integrare, costituendosi come una scelta coraggiosa (o molto furba) che, però, potrebbe non funzionare. Se, nell’Ep del 2012, i Cani non sono i Pinguini, un anno dopo i Cani non sono più nemmeno quei Cani. Nonostante la musica non sia cambiata, forse perché più abituati a questo genere rispetto al 2011, è necessario più di un ascolto per poterlo comprendere.
Si può parlare di un disco più maturo, ma quest’idea non giustificherebbe appieno quello che succede al suo interno. Un’evoluzione c’è, ed è riscontrabile, ma questo non significa che sia riuscita. Rimane la componente autobiografica dei testi, forse più profonda rispetto al passato. Viene abbandonato il tentativo di rappresentare i tanti riflessi di un’unica storia, un po’ alla Infinite Jest di Foster Wallace o di altri artisti, il cui confronto sembra pesare a Contessa ogni volta che si avvicina alla scrittura. I testi, se letti e non ascoltati, hanno subìto un’improvvisa trasformazione, raccontando la dimensione interiore di Contessa, piuttosto che quella delle ragazzine o dei cocktail party romani, come se volesse in parte ritrattare quanto vissuto prima, dopo aver affrontato il muro dell’ansia da successo: «E poi temo il successo, ma non quanto l’insuccesso: forse è per questo che passo la vita a dire che non m’interessa (in FBYC, decima traccia).» Le parole si caricano di pesantezza e ricoprono il ruolo principale di Glamour, funzione nuova rispetto al primo album in cui erano contenitori di musicalità e comparse per un ritmo che le superava.
Il cambio di verve musicale è rintracciabile già da Introduzione, prima traccia, richiamo non dichiarato a quelle Vacanze dell’ottantatré dei Baustelle con la stessa alterazione fra lento e concitato. Se Bianconi ci restituiva un’immagine colonica della sua vita, Contessa ci butta dentro alla sua testa, facendoci capire di cosa si caratterizzerà tutto il suo lavoro. La traccia successiva, Come Vera Nabokov, segna un parziale ritorno al passato, ritmi più leggeri e testo più svagato, preannunciando l’unica canzone capace di ricordarci i fasti di un tempo e potenzialmente ‘di massa’, nonché primo singolo uscito, Non c’è niente di Twee. È proprio la quarta traccia, successiva a Corso Trieste realizzata insieme ai Gazebo Penguins connubio che aveva già funzionato nell’Ep del 2012, a essere il pezzo più di richiamo dell’intero album a cui, probabilmente, è affidato il compito di sostenerlo davanti ai fan raccolti nelle passate peregrinazioni in Italia. Testo poco complesso ma di richiamo, esperienze che tutti possiamo avere vissuto e che trascinerà un’altra massa di giovani potenzialità a riversarsi nei club semi deserti. Per quanto possa essere un tentativo di riallacciarsi al passato anche l’astro nascente di quattro poveri stronzi del testo è cambiato. Il ritmo martellante che sostiene il ritornello ripetuto ossessivamente, quasi in maniera subliminale, è la caratteristica che tanto li aveva fatti conoscere e apprezzare. L’accoppiata Storia di un impiegato e Storia di un artista, allusione al duplice destino con cui probabilmente Contessa si è trovato a dover fare i conti, confermano quella declinazione pop decadente con cui voleva caratterizzare l’album (il «Considerato che non sono un artista, e con le velleità non ci si vive, mi ritrovai con un lavoro vero: uno di quelli proprio senza glamour» dell’impiegato-Contessa si oppone al «perché lì stanno le cose che ci piacciono: i dischi, le foto, i registi, i marchingegni alla moda, le muse, gli artisti, e sentirci diversi, creativi, speciali, tutto tranne normali. Tutto, tranne normali» di un mondo che non sa essere se stesso). Questo contrasto è visibile anche all’interno della scelta musicale. Mentre Storia di un impiegato, senza scomodare De André, ha un ritmo ossessivo, che non assoceremmo mai alla realtà di un lavoratore, Storia di un artista ha una musicalità da jingle commerciale che contrasta, ancora una volta, l’idea comune dell’artista maledetto. Che questo contrasto sia diretto ancora una volta a sminuire quella scena alternativa che Contessa ha sempre attribuito a Vasco Brondi? In FBYC (s f o r t u n a), titolo di un album dei Fine Before You Came del 2009, a cui Contessa si indirizza («Chiederò ancora a Jacopo [Lietti, voce della band milanese, NdR] di spedirmi magliette e abbracci.»), è la canzone che più si distacca da ogni altro pezzo de I Cani ed è proprio qui che il disco vede un inaspettato apice di originalità. Il ritmo è esasperato come le parole che lo compongono e risulta molto più interessante rispetto ad altre scelte. Per questo motivo altri pezzi come San Lorenzo, ballata post pop che lascia il tempo che trova, Lexotan (ennesimo riferimento medico, costante dei testi, come già fu per la sindrome di Asperger), Roma Sud e Theme from Koh Samui realizzati assieme a Cris X, come fu per Themes from Cameretta e Roma Nord del precedente album, passano inosservati.
Il disco ha buoni propositi, appare come una fenomenologia dello stile decadente alternativo italiano in chiave ironica, ma a cui mancano le basi per potersi muovere come una critica efficace. Il tentativo però non accontenta nessuno. I Cani, ponendosi a metà via fra il passato e il presente, deludono entrambre le parti. La componente di aficionados per la scomparsa di 11 tracce per cui sudare, quella più intellettuale per le scelte troppo poco radicali. È difficile accontentare tutti e fare scelte decisive, ma è peggio cercare di bilanciarle insieme. Una mezza via che necessita di un terzo disco per poter capire quale sia l’essenza reale di questa band perché, prima o poi, una parte dovrà prenderla. All’innovazione che si voleva portare non sembra, infatti, accompagnarsi il coraggio di difenderla, quanto una volontà di mettersi al riparo.
42 Records, 2013
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