Voto: 8/10
Vorrei iniziare questa recensione con una considerazione generale sull’album che non è mia, ma del poeta inglese Simon Armitage: “c’è qualcosa di familiare e di immediato nella musica che producono, in modo tale che anche una nuova canzone può trovar posto immediato in qualche angolo della memoria, ancor prima che questa finisca, come se la si conoscesse da anni”. Non potrei essere più d’accordo, l’immediatezza è un punto di forza di questo lavoro firmato I Am Kloot. Ora però cerchiamo di procedere con ordine.
Gli I Am Kloot nascono nel 2001, con il bel debutto “Natural History”, e non si può evitare di parlare del New Acoustic Movement al quale sono appartenuti e dal quale si sono poi distaccati. Il movimento era ispirato principalmente al secondo lavoro dei Kings of Convenience, “Quiet Is the New Loud” (il nome infatti riprende il concetto insito nel titolo dell’album) ed è caratterizzato per una voce sempre in primo piano, uno stile decisamente poco aggressivo ed incentrato su motivi sofisticati, il tutto a celebrazione di una sonorità che richiama pesantemente quella dei primi Simon And Garfunkel.
Il gruppo è rimasto fedele alla linea per un po’ prima di distaccarsi gradualmente dando vita a Sky At Night (2010), nel quale si lasciava spazio a delle ottime incursioni orchestrali ed ha un minimo di elettricità. Nel nuovo Let It All In questi elementi trovano ancora più spazio, dando vita a quello che sembrerebbe avere le potenzialità per diventare uno stile unico, un biglietto da visita di un certo spessore e poco riproducibile, specie in virtù del particolare percorso musicale sostenuto dal gruppo.
L’album si apre con Bullets, un pezzo da suggestivo pianobar americano pieno di fumo salvo per un raid elettrico sorprendente intorno al secondo minuto, quasi un affermazione di rottura con il passato e una voglia di accennata aggressività. Il lato pop e british della band esce fuori senza riserve attraverso pezzi quali Mouth On Me e Masquerade, per trovare delle piacevoli pause più intimiste nella rassegnata e delicata Let Them It All e nelle confessioni disincantate di Forgive Me These Reminders, che ci congeda dall’opera cullandoci con una certa armonia.
A dividere l’album in due ci pensa la particolare Even The Stars, una ballata melodica ripresa dal DvD di “I Am Kloot Play Moolah Rouge” (2008), che con note pennellate ci descrive le intime suggestioni di una notte: di rara bellezza la sequenza di domande che compongono la prima stanza [«Did we cross the bridgeless gulf of chatter? / Did we say just one thing that mattered?/ Did we skate the cold water of reason? /Invigorate the logic of his reason?»] e la logica risposta/conclusione «Even the stars die».
Il pezzo-simbolo dell’album è rappresentato da Hold Back The Night – singolo che ha anticipato l’album – nel quale ritroviamo tutte le atmosfere: il lato acustico, quello più intimo insieme ad un canto drammatico, a tratti malinconico ma anche rabbiosamente affranto; trova spazio anche una magnifica incursione di archi, che sa di epico e di sontuoso ma mai di barocco o di scomposto, una disperata ma opportuna eleganza orchestrale.
Il piatto è corposo e il lavoro è molto solido. Le origine acustiche non sono tradite e le nuove aperture agli strumenti di impanto orchestrale (ci sono addirittura delle piacevolissime trombe in Some Better Day) rendono l’album molto particolare e ricercato. L’immediatezza dei suoni e delle liriche fanno di questo lavoro un prodotto ben fruibile, rendendolo un istant classic del suo genere, da ascoltare e riascoltare, specie di sera, se non piove.
Tracklist:
- Bullets
- Let Them All In
- Hold Back The Night
- Mouth On Me
- Shoeless
- Even The Stars
- Masquerade
- Some Better Day
- These Days Are Mine
- Forgive Me These Reminders