Nonostante la sua esclusione dalle varie top ten del 2014 Hannah Arendt è sicuramente un film che merita di essere visto.
Siamo negli anni 1961-62, la Shoah è una sconcertante realtà ancora tangibile. La filosofa tedesca Hannah Arendt (Barbara Sukowa) assiste, come corrispondente per la celebre rivista americana New Yorker, al processo che si tiene a Gerusalemme del gerarca nazista Otto Adolf Eichmann.
Ancora non può immaginare che i cinque articoli a lei commissionati diventeranno presto uno dei testi più importanti e discussi della filosofia del ventesimo secolo. La sua intenzione è solamente quella di vedere “una di quelle persone in carne e ossa”. La constatazione dell’ordinaria e mediocre essenza dell’incriminato genera nell’energica pensatrice una serie di riflessioni e ragionamenti sulla natura dell’uomo. Eichmann, secondo la filosofa, non presenta – come sostenuto dall’intera opinione pubblica del tempo – alcun tratto di malvagità estrema, diaboliche perversioni o pulsioni distruttrici. Al contrario egli è un normale borghese, un dipendente che rispetta gli ordini e che non viene meno al suo giuramento nei confronti del capo. La sua quotidianità lavorativa la affrontava, ai tempi del Terzo Reich, attuando una “dissociazione consapevole” tra dovere e coscienza, come afferma egli stesso al processo, per cui “ci si doveva rifugiare da una parte o dall’altra”. E’ questa “enorme differenza tra l’inconcepibile orrore delle sue azioni e la mediocrità dell’uomo” che colpisce la Arendt e la porta a formulare la teoria che diverrà poi la base del suo celeberrimo saggio La banalità del male. Uno scritto che diviene, al tempo della sua pubblicazione nel 1963, oggetto di violente critiche e aspre reazioni. La drammaticità di un male banale che non richiama alcuna dimensione disumana ed è anzi realizzato da rigidi burocrati è un concetto fastidioso che sgomenta e terrorizza.
Margarethe Von Trotta, con l’aiuto di Pamela Katz, dirige un’opera la cui protagonista è una donna forte e controversa in cui il delicato contrasto tra intima dolcezza e professionale fermezza si traduce in un perfetto equilibrio. Il tema è travolgente e riesce a miscelare nelle giuste dosi storia, filosofia e sentimenti.
Un accurato lavoro di montaggio che alterna veri footage dell’udienza in Israele con primi piani dell’intellettuale in silenzio pensoso riesce a evocare quella sospensione spaziotemporale tipica del processo analitico della mente umana. In questa maniera Von Trotta traspone delicatamente sullo schermo la sostanziale consistenza del procedimento del ragionamento filosofico. Lo spettatore è così catapultato nell’azione del pensare totale del filosofo, un processo privo di pregiudizi e influenze.
Hannah Arendt è un film su un pensiero che fa pensare.