Ha esordito ieri in Italia il nuovo canale Sky Atlantic, annunciato da un’irritante pubblicità con Sergio Castellitto e interamente dedicato alle serie TV “di qualità”. Ai cult americani (Boardwalk Empire, Game of Thrones) verranno affiancate novità molto interessanti come True Detective e produzioni italiane come la discussa Gomorra o 1992, dedicata ai fatti di Mani Pulite, con, tra gli altri, Stefano Accorsi e Tea Falco. Ok, fine della pubblicità.
Per quale motivo nasce Sky Atlantic, ma, soprattutto, perché proprio ora? Quella di Murdoch sembra essere una tardiva risposta alla fuga dei clienti, soprattutto nel settore della serialità, in direzione dello streaming e della sua principale attrattiva: la possibilità di vedere le puntate in contemporanea con la messa in onda americana, anche grazie al fondamentale apporto delle communities dedicate ai sottotitoli. Non penso sia possibile quantificare quanti utenti abbiamo visto le puntate di Walking Dead prima della loro uscita “ufficiale” in Italia, ma sono sicuro che se avessimo dei dati la scelta di Sky ci sembrerebbe pienamente giustificata.
Ora resta soltanto da aspettare per capire se non sia già troppo tardi, se non sia ormai impossibile riportare gli adepti dello streaming all’ovile della tv e ai suoi meccanismi: le puntate centellinate settimana per settimana, la pubblicità invadente, quelle dannate animazioni che compaiono sempre più spesso nella parte inferiore dello schermo. Se poi, come sembra, lo scopo di Atlantic è quello di rieducare lo spettatore medio alla serialità e ai suoi dogmi, appare paradossale che ad inaugurare le trasmissioni sul canale 110 sia stata proprio una puntata di House of Cards.
Una delle almeno cinque serie che i giornali italiani apostrofano come “la preferita di Obama” (qui e qui), il presidente che passerà alla storia per aver spostato un discorso alla nazione in modo tale da non sovrapporsi all’ultima serie di Lost, House of Cards è un ottimo prodotto televisivo, ben scritto e recitato, coinvolgente quanto basta, ma che non brilla per innovazione. Contenuti? Non penso che l’idea di seguire passo per passo la scalata al potere di un ambizioso e, ça va sans dire, corrotto politico sia qualcosa che vi lasci a bocca aperta. Come sottolinea Guia Soncini in un ottimo articolo comparso su IL dello scorso mese, parlare in modo stiloso della politica “sporca e cattiva” non è una novità: in questo senso, basti pensare al fallimentare Le idi di marzo realizzato da Clooney qualche anno fa. Lo stile, invece? Ripescare furbescamente la “parlata in camera” à la Woody Allen (o à la Shakespeare, se preferite) e una fotografia anni ’90, patinata ai limiti del plagio con lo scopo di sembrare una produzione HBO, non mi sembra granché.
Detto questo, House of Cards è un serial coinvolgente e divertente, uno dei migliori mai realizzati ad oggi, capace di mixare epos e ironia nelle giuste dosi, ma se possiamo definirlo un prodotto rivoluzionario, e non l’ennesima “serie dell’anno” che cercano goffamente di venderci almeno una volta alla settimana, questo è fondamentalmente dovuto alla sua genesi. Leggevo che Pulp Fiction può essere considerato come il simbolo della “generazione Blockbuster“, quella a cui il VHS ha permesso una formazione cinematografica completamente nuova, autonoma dai dettami del cineforum, capace di mescolare alto e basso, noleggio dopo noleggio. Ecco, magari tra qualche anno parleremo di House of Cards come del primo reperto dell’età dello streaming, in cui lo spettatore può e vuole assorbire nello stesso momento una mole di informazioni impensabile per la generazione precedente.
House of Cards è la prima produzione originale targata Netflix: nata nel 1997 come “Blockbuster online”, noleggiando DVD in giro per gli Stati Uniti, si è gradualmente evoluta in piattaforma streaming, onde evitare la finaccia del suo più celebre rivale, raggiungendo quota 27 milioni di utenti alla fine del 2012. Con una base di potenziali clienti come questa, che, secondo le statistiche, guarda la pazzesca cifra di 3 film e 5 puntate di serial a settimana sulla piattaforma, sarebbe stato assurdo da parte dell’azienda non pensare di sviluppare autonomamente delle sue serie, ed è proprio quello che è accaduto.
Utilizzando in maniera innovativa l’immensa mole di dati generata dagli utenti, le cui scelte vengono catalogate con tag così dettagliate da rasentare l’assurdo, Ted Sarandos e il suo team sono riusciti ad identificare il cast e il regista perfetti per il target del film, aiutati da un budget vicino ai 100 milioni di dollari per le prime due stagioni. In questo modo, sono entrati a fare parte del progetto pesi massimi come David Fincher, regista e deus ex machina del progetto, Kevin Spacey come protagonista, Rooney Mara e Robin Wright in ruoli di supporto.
Come si addice a una piattaforma di streaming, le tredici puntate della prima serie di House of Cards sono state messe a disposizione dell’utente in contemporanea, innovando (tradendo?) uno dei cardini della serialità televisiva: la temporalità. Essendo un prodotto del web, realizzato per il web, la serie di Netflix non poteva non adeguarsi alle regole del gioco, rinunciando alla pretesa di poter controllare dall’alto lo sviluppo del racconto, rassegnandosi a dover abbandonare nelle mani di ciascun utente la scelta di come, quando, dove fruire della serie, generando una serie pressoché infinita di esperienze simili ma diverse tra loro.
House of Cards significa liberarsi, almeno in parte, del più abusato dei cliché della narrazione seriale: quel finale aperto che costringe (impensabile, ci illudiamo, ai tempi del web libero) lo spettatore ad aspettare e a ritornare, inesorabile, sul luogo del delitto per scoprire il colpevole un indizio alla settimana. L’altra conseguenza, però, della scomparsa della ciclicità nel serial, non può che essere la scomparsa del rituale, dell’“appuntamento alla prossima puntata”, dell’elemento collettivo che lo ha reso mainstream, spingendo una nazione intesa a domandarsi chi avesse ucciso Laura Palmer.
Ed è qui che arriviamo al titolo dell’articolo, a quel senso di inadeguatezza provato nel tradire l’essenza stessa di un evento, rinnegandone l’eccezionalità, che si tratti di scegliere un abbigliamento “discutibile” per il proprio matrimonio, di voler essere sepolti con il proprio gatto (vivo) o, perché no, di voler vedere House of Cards in televisione, come se fosse Rawhide o un clone qualsiasi di Friends, una “serie dell’anno” come tante altre.