Una volta trascorsi i fatidici cento (e passa) giorni di governo tecnico, tracciare un primo bilancio dell’operato dell’esecutivo Monti, da un punto di vista rigorosamente indipendente, ci pare doveroso.
Va detto subito che la tendenza all’agiografia di Mario Monti, quotidianamente veicolata a media pressoché unificati, ormai, risulta davvero imbarazzante.
Un recente editoriale domenicale di un gran maestro del giornalismo italiano, quale Eugenio Scalfari, è efficacissimo nel dare una immediata testimonianza della narrazione dell’epopea montiana e dei suoi tratti smaccatamente propagandistici:
«Tre mesi fa eravamo sul ciglio di un baratro, la credibilità del nostro Paese era scesa sotto il livello dello zero, dalla finanza e dalla tenuta del debito pubblico emergevano sinistri scricchiolii; la recessione dell’economia reale era già evidente e così pure il malessere sociale dei ceti più deboli, delle famiglie e del Mezzogiorno. Il Nord dal canto suo aveva cessato da tempo di “tirare” ed anzi avvertiva un disagio sociale crescente.
Questa era la situazione fino al novembre del 2011 e questo spiega il sollievo e il plauso pressoché unanime con cui fu accolta la decisione di Napolitano di dare a Monti la responsabilità di salvare l’Italia da un avvitamento irreversibile incombente.
L’operazione è riuscita per metà. In cento giorni. Piacerebbe chiedere ai tanti critici che ora sbucano a destra a manca in quali altre occasioni nella storia del nostro Paese situazioni di analoga gravità sono state contenute e avviate a soluzione in così breve lasso di tempo.
Io non ne ricordo altre. Si può a giusto titolo rievocare quella compiuta dal governo Ciampi nel 1993, con una differenza però tutt’altro che trascurabile: la grave crisi di allora era soltanto italiana; quella di oggi è mondiale ed è in corso da quattro anni.
Ciampi compì il miracolo in un anno con un governo che, per nascita e composizione, somiglia molto da vicino a quello attuale. Fu anche quello ― come i critici di oggi ripetono ossessivamente parlando dei tecnici ― un sequestro della democrazia?
Il governo Ciampi scrisse la parola fine alla partitocrazia e alla corruttela pubblica che l’aveva accompagnata. Il governo Monti ha messo la parola fine al populismo dell’era berlusconiana. Ma ― lo ripeto ― ci troviamo oggi al centro della più grave crisi economica e politica degli ultimi cent’anni. L’Italia è stata fino a un mese fa al centro di questa crisi perché le dimensioni del nostro debito pubblico sono tali che un suo “default” avrebbe fatto saltare in aria l’euro e quindi l’intera Europa creando un terremoto di dimensioni planetarie.
In cento giorni siamo usciti da questa situazione ma non per questo la crisi è conclusa. Siamo nel bel mezzo di una recessione che durerà almeno un anno. La crescita è indispensabile».
Le inesattezze presenti in queste righe sono diverse e tutte molto significative. Nostra intenzione e appunto quella di provare a farle emergere, in modo tale da far sì che il lettore abbia poi gli strumenti per essere in grado di comprendere meglio quello che sta accadendo, in questo momento storico, nel Paese. Un’operazione politica da gattopardi: cambiare tutto affinché nulla realmente cambi negli assetti di potere costituiti. A cominciare da quelli, intoccabili, del premier uscente. Come è ormai chiaro, infatti, l’azione del cosiddetto governo tecnico ha dei confini invalicabili: quelli fissati dal gruppo di potere berlusconiano che, in parlamento, sostiene e sosterrà il governo Monti solo in quelli iniziative politiche che sono in linea con i propri particolari interessi.
Sul punto, Giuseppe Giulietti è stato lapidario, ad esempio, nel sostanziare e motivare le richieste e le esigenze berlusconiane in materia di riforma televisiva:
«Sul tavolo della richieste Berlusconi e soci hanno messo la concessione gratuita delle frequenze digitali, e la nomina di un presidente della Autorità di garanzia delle comunicazioni che “garantisca” la conservazione degli attuali equilibri e non si metta in testa di stimolare liberalizzazioni e concorrenza».
Ma, evidentemente, questo è uno dei tanti aspetti che gli agiografi del governo Monti sottovalutano o volutamente ignorano.
Dunque un primo elemento da tenere bene a mente è questo: ha senso ritenere che un governo presieduto da Berlusconi avrebbe inesorabilmente condotto il Paese al tracollo economico, mentre un governo presieduto da uno stimato economista, ma comunque condizionato nella sua azione politica dalla componente parlamentare berlusconiana, rappresenti “senza se” e “senza ma” una invidiabile macchina di efficienza e risanamento pubblico?
In altre parole: può mai essere sufficiente la mera messa tra parentesi di Berlusconi a giustificare una così cieca e diffusa fiducia nell’azione del nuovo esecutivo?
Logica e buon senso imporrebbero dunque di evitare le professioni di fede e di vagliare invece attentamente il contenuto politico delle iniziative messe in atto dai sedicenti tecnici per agevolare l’uscita dalla crisi.
E, prima ancora, impongono di analizzare a fondo le due questioni critiche: il cosiddetto “rischio default” e la già riscontrata recessione economica.
Qui emergono le prime inesattezze nella ricostruzione del coro mediatico ― di cui Scalfari si fa perfetto interprete ― che descrive Monti come l’eroico salvatore di un paese innegabilmente sull’orlo del baratro, perché è proprio sull’innegabilità di un “rischio” fallimento che improvvisamente diventa stato di fatto (“un avvitamento irreversibile incombente”) che invece ci sarebbe parecchio da discutere, mentre ― come vedremo meglio in seguito ― la recessione è un dato che viene addirittura acuito dall’operato del governo Monti.
Considerando che il Giappone, nonostante l’impatto terribile che ha avuto sull’economia di quel paese la devastazione (questa sì!) naturale del terremoto dello scorso anno con l’annesso tsunami e la conseguente tragedia nucleare di Fukushima, non va in default, pur avendo un rapporto tra PIL e debito pubblico che va ben al di là di quello italiano, così tanto criminalizzato, è lecito avanzare qualche perplessità sulla lettura dominante, che pare avvalorare l’idea che sia il debito pubblico in quanto tale la causa del fallimento teorizzato?
Se il Giappone ― che ha un PIL che è più del doppio di quello italiano ed è pur sempre la terza economia del pianeta ― non è ancora fallito, ne è sottoposto alle stesse pressioni speculative che hanno fatto sì che l’Italia arrivasse a pagare rendimenti altissimi sui titoli di debito collocati sul mercato nei mesi scorsi, ciò non dipenderà, forse, anche dalla circostanza che il gigantesco debito pubblico nipponico è detenuto in larga misura dagli stessi risparmiatori giapponesi?
E allora siamo sicuri che l’Italia di fine 2011, ovvero l’ottava economia del globo, sia stata realmente a rischio di immediato fallimento? E che senza l’azione ‘salvifica’ dell’esecutivo Monti ciò sarebbe inevitabilmente accaduto e potrebbe ancora accadere, se ― come sembra sostenere Scalfari ― ci si azzardasse a ripristinare una normale dialettica politica tra opposti schieramenti?
Vale la pena a questo punto di soffermarsi a riflettere bene sulla questione del famigerato spread.
Questo indicatore numerico ― che, come tutti ormai hanno compreso, è bene che non esprima valori particolarmente elevati ― definisce una misura. Ma cosa misura esattamente questo spread? Si tratta in estrema sintesi della differenza tra i rendimenti di due titoli di debito pubblico, il BTP italiano e il Bund tedesco: quanto più è alta questa differenza, tanto più sarà alto il rendimento che lo Stato italiano dovrà offrire ai suoi creditori per piazzare sul mercato i propri titoli di debito. Perché è un bene che questo valore resti basso lo si può comprendere immediatamente con un esempio: se l’Italia deve pagare 100 miliardi di titoli in scadenza e per adempiere all’obbligazione mette sul mercato 100 miliardi di nuovi titoli di debito, il nuovo debito sarà tanto più alto quanto più sarà alto il rendimento che i nuovi creditori pretenderanno per acquistare i titoli di recente emissione. In concreto, con un rendimento al 7%, pari a quello del periodo di maggiore crescita dello spread, il debito pubblico italiano crescerebbe di 7 miliardi per ogni cento miliardi di debito pubblico da ricollocare. Questo significa che se il debito pubblico italiano fosse andato interamente a scadenza nel periodo di massimo incremento dello spread, sarebbe balzato dai circa 1900 miliardi da ultimo certificati a oltre 2000 miliardi: il che significa, a PIL costante, anche un peggioramento del rapporto tra PIL e debito pubblico. Tuttavia, abbiamo già visto come il caso giapponese testimoni chiaramente che né un alto debito pubblico, né un alto rapporto tra PIL e debito pubblico significhino automaticamente e inevitabilmente che quella economia nazionale sia destinata al fallimento. Abbiamo anche sottolineato che ci sono due indicatori che mettono al riparo da questo rischio: la ricchezza complessiva del paese e la collocazione nazionale (e non estera) dei titoli di debito. Il Giappone non fallisce, insomma, perché è una delle prime tre economie del pianeta e perché ha collocato presso i propri cittadini la gran parte dei titoli di debito emessi.
L’Italia, ottava economia mondiale, sul finire del 2011, diventa invece improvvisamente uno Stato “sul ciglio di un baratro”, per poi salvarsi ‘miracolosamente’ nel giro di pochi mesi, anche se forse non è ancora detto che sia davvero salva… Ancora non sono sufficientemente evidenti le contraddizioni di questa costruzione mediatica del terribile pericolo da scongiurare ‘sospendendo’ la democrazia?
Va detto, allora, che c’è un terzo indicatore che rende meno concreto il rischio fallimento dello Stato: una buona durata media del debito. Si capisce subito, infatti, che se il debito non ha scadenza immediata lo Stato ha un margine di manovra più ampio, per evitare il cosiddetto default. Qui, sia a giugno 2010 che a distanza di un anno, abbiamo testimonianza di un dato sulla durata media, settennale, del debito pubblico italiano che dovrebbe mettere il nostro Paese in una posizione di relativa tranquillità.
In particolare, poi, da questo grafico emerge anche un altro dato spesso taciuto sulla questione: più della metà del debito pubblico italiano resta in Italia; ciò che rende ancora più assurda la storiella del neonato italiano che nascerebbe già molto indebitato a causa dell’enorme debito pubblico nazionale, essendo evidente, invece, che se si tratta del figlio di uno dei possessori dei titoli, in realtà, egli potenzialmente ‘eredita’ subito un credito da riscuotere e non un debito.
Dunque, sebbene i fondamentali economici non giustificavano una previsione di fallimento fino a tutta l’estate del 2011, d’un tratto il Paese si viene a trovare “sul ciglio di un baratro”.
Perché? Forse perché come sostiene il prof. Arrigo in uno degli articoli citati poc’anzi, si tratta più di una questione psicologica che tecnica?
Per cui:
«se i mercati internazionali percepiscono un Paese come pericoloso, lo fanno diventare pericoloso per davvero. Sono profezie che si autoavverano. Se pensano che alla scadenza dei titoli ci sarà incapacità da parte dello Stato a rimborsarli, perché non ci saranno abbastanza sottoscrittori disposti a comprarne di nuovi, si diffonde il panico. E le variabili per la valutazione sono abbastanza eterogenee».
In questo caso, bisognerebbe concludere che se nel giro di pochi mesi l’Italia può improvvisamente diventare Paese a rischio fallimento, per poi rapidamente normalizzarsi, ciò dovrebbe spiegarsi con la circostanza che la personalità del grande economista Mario Monti, da sola, risulterebbe in grado di placare quelli che Keynes non a caso definiva come “animal spirits” del libero mercato.
Ma può soddisfarci una lettura del genere degli eventi di questi mesi?
Spulciando meglio tra le fonti, si scopre che forse una spiegazione meno emotiva al repentino calo dello spread c’è: e non c’entra tanto l’azione politica o il carisma di Monti, quanto piuttosto le due massicce iniezioni di liquidità effettuate dalla Bce a dicembre 2011 e nel febbraio ultimo scorso.
Un recente redazionale de Il Fatto Quotidiano ci pare abbastanza esplicito, in proposito:
«i due maxi-prestiti a tre anni sborsati dalla Bce a dicembre e febbraio sono stati decisi “a fronte di circostanze straordinarie nell’ultimo trimestre del 2011” e “potrebbero aver contribuito a contenere gli effetti di contagio della crisi del debito sovrano”, oltre ad aver avuto effetti positivi sul mercato bancario. In Italia la fiducia dei consumatori “si è gradualmente indebolita per riportarsi su livelli analoghi a quelli osservati durante la recessione del 2008–2009”, e siamo il paese che nell’Eurozona ha registrato il maggiore calo dello spread tra i propri titoli di Stato e i Bund tedeschi. Una flessione pari a 166 punti avvenuta “nonostante il declassamento da parte delle tre principali agenzie di rating”»
A questo punto ci sembra chiaro ed evidente che, in assenza di fondamentali economici tali da giustificare oggettivamente e innegabilmente un rischio fallimento dell’Italia, in questi mesi noi abbiamo assistito a una grossa operazione speculativa, bloccata infine dall’intervento ‘salvifico’ della Bce.
Va detto che, per statuto, la Bce non può intervenire quale prestatore di ultima istanza, acquistando direttamente i titoli che il mercato non reputa sufficientemente affidabili e che, secondo alcuni, è proprio questo aspetto che espone le singole economie nazionali dell’area euro ad attacchi speculativi come quello subito dal nostro Paese. Dunque l’intervento calmierante della Bce si realizza, come abbiamo visto, indirettamente e, da quel che si capisce, esigendo contropartite politiche ai singoli Stati che più beneficeranno di queste operazioni. In altre parole, Monti più che il salvatore della Patria verrebbe così a rappresentare una sorta di esecutore materiale del mandato politico richiesto dalla Bce per agevolare ― col suo intervento indiretto, atto a stoppare la speculazione ― la sostanziale tenuta dei conti pubblici nazionali.
Stando così le cose, si dovrebbe quindi comprendere meglio anche quanto sia sballato il parallelo fatto da Scalfari col governo Ciampi e quanto sia fuori luogo il suo sarcasmo sulle preoccupazioni di chi descrive l’attuale fase politica come una sorta di “sequestro della democrazia”.
Non solo è del tutto fuori dalla realtà il voler far coincidere la fine della prima repubblica con la fine della “corruttela pubblica che l’aveva accompagnata” ― e qui se non bastano i tanti episodi quotidiani di cronaca, da Lusi alla giunta della efficientissima Lombardia, dovrebbero essere più che sufficienti i 60 miliardi di euro annui che la Corte dei conti stima come maggiori costi della spesa pubblica nazionale, dovuti appunto a dinamiche e pratiche corruttive ― e l’attribuire all’avvento di Monti la fine di quel berlusconismo che, invece, abbiamo visto essersi limitato, in realtà, soltanto ad agire da dietro le quinte, ma c’è proprio una divaricazione netta, sul piano storico, tra i due fenomeni.
Ciampi è stato di fatto un traghettatore: ha assolto il suo breve compito a guida dell’esecutivo, con un piglio da uomo delle istituzioni che non a caso gli è valso poi la candidatura e l’elezione a Capo dello Stato.
Monti, invece, ha assunto (e sempre più sta assumendo) un ruolo che è palesemente politico. Che lo svolga come garante del rigore accademico liberista nei confronti dei mercati (con conseguente preservazione dello status quo e dei rapporti di potere economico consolidati) o come mandatario della Bce, poco cambia: politico è il suo ruolo e politica resta la sua iniziativa.
Iniziativa politica che, come detto, non rimane peraltro nemmeno circoscritta alla fase emergenziale, ma che si prefigura, anzi, come potenzialmente estendibile anche al di là della fine della legislatura in corso.
Va dunque analizzato attentamente ― lo ripetiamo ancora una volta ― il contenuto dell’azione politica dell’esecutivo Monti. Perché se non si riesce a comprendere a fondo in che direzione procede la politica di questo governo, difficilmente si potrà capire il senso della netta alternativa tra restaurazione aristocratica e democrazia popolare, che si sta profilando, con la messa tra parentesi di Berlusconi e la perpetuazione del berlusconismo sotto altre forme.
***
Un’analisi attenta dell’operato del governo Monti deve condursi necessariamente su due piani: quello della comunicazione politica e quello dell’azione concreta.
Sul piano comunicativo, questo esecutivo “tecnico” si è fin da subito presentato come il classico medico che non deve far altro che somministrare l’unica terapia possibile, per provare a salvare il paziente Italia da morte certa. Abbiamo già visto come questo modo di presentarsi abbia trovato e ancora trovi ampio risalto e cassa di risonanza nei media mainstream, con la lodevole eccezione delle poche voci che coraggiosamente si sottraggono al coro incensante.
Avendo già sufficientemente chiarito quanta esagerazione ed esasperazione ci sia stata nel descrivere la ‘malattia’ del Paese e la necessità e l’univocità della terapia da somministrare, vedremo ora, in concreto come l’azione politica dell’esecutivo Monti risulti in sostanziale continuità con i programmi e gli interessi del precedente esecutivo e quanto, di conseguenza, sia folle e potenzialmente suicida la scelta del Partito Democratico di assecondare questo progetto di restaurazione aristocratica.
Prima di entrare nel merito, però, è necessaria una premessa esplicativa di metodo: abbiamo già più volte fatto riferimento a questa idea di restaurazione aristocratica che, con la messa tra parentesi di Berlusconi, viene a contrapporsi alla democrazia popolare. In realtà, si potrebbe anche far ricorso al lessico marxiano e descrivere il corso degli eventi come un caratteristico sviluppo del conflitto tra capitale e lavoro e, più esattamente, tra la classe che ha accumulato capitali per generazioni e quella dei lavoratori salariati. Solo che la sfrontatezza con cui, oggi, le ricche oligarchie difendono i propri privilegi, contando sulla capacità di controllo e manipolazione dell’opinione pubblica, assicurata dal coro mediatico, rende prioritario porre l’accento sulla natura stessa di un ordinamento democratico che, di fatto, tende a cancellare un’autentica possibilità di scelta.
Per essere ancora più espliciti, la domanda che si impone al momento è questa: può ancora dirsi democratico un ordinamento che non consente opzioni di scelta realmente differenti?
Perché il nocciolo della questione è tutto qui: può dirsi democratico, un governo sedicente tecnico che propone ricette politiche che, quand’anche vengano discusse, in ogni caso, poi, saranno attuate secondo i piani predefiniti, anche se questi piani peggioreranno le condizioni di vita della maggioranza dei cittadini costretti a subirle?
Per comprendere a pieno il senso e l’urgenza di questa domanda è il caso allora di passare finalmente in rassegna ciò che ha fatto, fin qui, il governo Monti, cosa si propone di fare, come spaccia per inevitabili e assolutamente buone le proprie ricette ― con la complicità di una informazione che, per lo più, sembra aver smarrito per strada ogni capacità critica e di giudizio ― e quali sono invece le nefaste conseguenze logiche di queste scelte politiche, che vengono volutamente taciute o messe ai margini di ogni discorso sull’argomento.
Cominciamo dalla manovra economica all’insegna del tanto anelato “pareggio di bilancio”. Estrapolando i dati più significativi dall’ottima sintesi realizzata da Quattrogatti.info si scopre subito che i tre quarti della manovra consistono in nuove tasse. All’insegna dell’equità come annunciato? Vediamo. I carichi del prelievo aggiuntivo sono stati così distribuiti: Tassazione beni di lusso = 2% vs. Accise & Tabacchi = 22%; Tassazione strumenti finanziari e beni esteri = 5% vs. IMU e rivalutazione catastale (in sostanza: la nuova ICI anche sulle prime case) = 44%. Sul versante residuale delle minori spese: i due terzi dell’intervento gravano sui pensionati.
Numeri, non ipotesi. Dati che, giova chiarirlo, mostrano come la volontà dichiarata di mettere in linea entrate e spese previste si sia realizzata, in sostanza, con un taglio alla spesa pubblica di 9 miliardi di euro che è quasi interamente ― per il 66% del totale (il resto sono quasi tutti tagli ai trasferimenti agli enti locali) ― messo a carico di pensionati e pensionandi.
Ma è soprattutto con le nuove tasse, ripetiamo, che si è realizzato l’equilibrio d bilancio. E, indubbiamente, l’equità non può certo essere data da questi numeri: su circa 26 miliardi di nuove entrate, anche qui, i due terzi finiscono con gravare diffusamente sulla cittadinanza. Scegliere infatti di prendere il 44% di queste nuove entrate dalla tassazione delle abitazioni di proprietà e un altro bel 22% da accise (si pensi soprattutto ai carburanti) e tabacchi e non di andare a incidere pesantemente sulla rendita finanziaria e immobiliare a quale ragione tecnica (e non squisitamente politica) dovrebbe rispondere?
Tenendo bene a mente che in Italia la Costituzione riconosce espressamente, all’art 53, il principio della progressività delle imposte, ha senso realizzare il pareggio di bilancio a danno dei cittadini consumatori, dei pensionati e dei proprietari di unità immobiliari in cui risiedono (ossia la casa familiare, spesso acquisita faticosamente con mutui ultra-decennali)?
Dalla sola rendita ― quella immobiliare, recentemente stimata in 1700 miliardi di euro, e quella finanziaria addirittura in 2700 miliardi ― si sarebbe potuto ottenere agevolmente la quota messa a carico dei piccoli proprietari e si sarebbe potuto benissimo anche evitare l’ennesimo taglio alla spesa pensionistica.
Se, dunque, si analizza il modo in cui si è scelto di distribuire i famigerati sacrifici da fare per risanare i conti pubblici, emerge chiaramente quel contrasto che in USA i movimenti hanno sintetizzato nella formula del “We are the 99%” di cittadinanza costretta a vedere peggiorare le proprie condizioni di vita, in situazioni di crisi economica, per mantenere intatti i privilegi dell’1% più ricco. Va detto, poi, che questo slogan, per il caso italiano, può essere facilmente tradotto in una misura precisa e attendibile, essendo di pubblico dominio (anche se mai sufficientemente pubblicizzato) il dato registrato dalla Banca d’Italia di quel 10% di famiglie italiane che possiede circa il 45% della ricchezza complessiva del Paese. Ed è curioso che quasi nessuno osservi come la scelta di questo governo di non chiedere il surplus di sacrifici ai rentiers, si configuri come un chiaro esempio di conflitto di interessi, visto che il primo tenutario di rendite finanziarie e immobiliari è lo stesso Presidente del Consiglio in carica e considerato che anche i suoi ministri non se la passano affatto male, da questo punto di vista.
Ricapitolando: il governo del 10% degli Italiani più ricchi definisce “salva Italia” una manovra economica che prevede il pareggio di bilancio nel 2014, ma mettendo il grosso del conto da pagare a carico dei ceti medio-bassi e promettendo contestualmente una pronta azione per lo sviluppo economico.
Pur essendo guidato da un economista di chiara fama, però, commette l’errore tecnico di ridurre la capacità di spesa di milioni di cittadini italiani, con questo intervento fiscale. La recessione economica ― ormai riconosciuta e certificata ― dunque era tutt’altro che imprevedibile, nel suo consolidarsi. E sia chiaro: se la manovra fosse stata caricata interamente sulle rendite e sui grandi patrimoni, l’effetto depressivo sulla domanda interna (che decresce in corrispondenza del minor potere di spesa delle famiglie tassate a vario titolo) non si sarebbe prodotto e, oggi, sarebbe meno arduo invertire la tendenza recessiva.
Nondimeno il governo ha una sua ricetta anche per bloccare la recessione economica:
«Il decreto legge rinominato dal presidente del Consiglio Monti “Cresci Italia” consentirà nel breve periodo, di traghettare l’economia nazionale fuori dalla spirale recessiva e possibilmente, nel medio/lungo periodo, di allinearla ai ritmi di crescita dei partners europei e internazionali».
Si tratta del famoso provvedimento sulle liberalizzazioni, immediatamente sommerso da una pioggia di migliaia di emendamenti, dato che le categorie interessate ― a cominciare da quegli avvocati che in parlamento hanno un’ampia rappresentanza corporativa ― hanno scelto di dar fondo «alle loro risorse di lobbying, scatenando i propri rappresentanti in Commissione».
Come è andata a finire? Lo stesso Monti si è espresso in questi termini, in proposito:
«La disciplina di queste materie per molti aspetti è stata migliorata nel corso dell’esame al Senato, a seguito di costruttivi interventi dei gruppi parlamentari e anche di singoli parlamentari».
Il provvedimento, però, è ancora in fase di approvazione definitiva e, quindi, ogni previsione sui suoi esiti possibili sarebbe doppiamente azzardata, potendo benissimo sparire o cambiare il singolo caso preso in esame.
Di certo, a noi non sembra che le contrastatissime azioni in materia di farmacie, taxi, carburanti, avvocati e notai possano realizzare chissà quale rivoluzione o anche solo significativo progresso per la cittadinanza, ma attendiamo fiduciosi che le norme vadano stabilmente in porto, con la conversione in legge del decreto, e che dispieghino pienamente i propri effetti di medio periodo, per dare una valutazione più compiuta.
Vanno fin d’ora registrate, però, le perplessità della Ragioneria dello Stato sulla copertura economica di alcune delle modifiche apportate al decreto dal Senato e la questione spinosa delle commissioni bancarie omnicomprensive.
La scorsa settimana, il sottosegretario allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, sul punto si esprimeva così:
«La posizione del Governo è nota: quella sulle commissioni bancarie è una norma votata dal Parlamento. Naturalmente il parere del Governo era contrario. Se il Parlamento riterrà di modificare la norma noi saremo assolutamente favorevoli a modificarla. Tutto qui. Non ci sono novità».
Cos’è successo esattamente, dunque?
Uno dei tanti emendamenti al decreto liberalizzazioni votati in Senato ha sancito una invalidazione generale di
«tutte le clausole, comunque denominate, che prevedano commissioni a favore delle banche a fronte della concessione di linee di credito, della loro messa a disposizione, del loro mantenimento in essere, del loro utilizzo anche nel caso di sconfinamenti in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido».
La norma ― lo ribadiamo: votata con parere contrario del Governo ― avrebbe permesso insomma di annullare tutti quegli escamotage con i quali le banche, di fatto, hanno aggirato la precedente abrogazione delle cosiddette commissioni di massimo scoperto.
Tuttavia, la reazione scomposta (dimissioni, poi, congelate) e la pressione continua dei vertici dell’ABI hanno portato il governo a scegliere di mettere in campo un apposito decreto, teso a neutralizzare questa norma: come dire? Tutti dobbiamo fare i necessari sacrifici per il bene dell’Italia, ma le banche devono comunque continuare a fare ingenti profitti…
Mettendo da parte il sarcasmo, però, già a questo punto, al lettore, dovrebbe risultare ormai sufficientemente chiaro come e quanto l’azione di questo esecutivo sia tutt’altro che neutrale, una volta visti gli interessi che va a toccare senza esitazioni e quelli intoccabili (o quasi).
La sostanziale convergenza con le politiche programmatiche del governo uscente è lampante e, d’altro canto, che Mario Monti potesse essere definito come un uomo di destra, pur non essendo affatto devoto a Silvio Berlusconi, lo si poteva ben comprendere leggendo questo suo articolo dell’anno scorso, in cui accostava Berlusconi a Marx (sic!), liquidandoli come due illusionisti, e contestualmente esaltava la concretezza dell’azione politica di Sergio Marchionne e di Maria Stella Gelmini… E, sia chiaro, Monti era uno che in Berlusconi inizialmente ci aveva creduto, come lui stesso ricordava, nell’articolo appena citato: nel 1994, salutando con speranza l’avvento al governo dell’imprenditore ‘prestato’ alla politica, Monti gli dava fiducia; come potenziale campione del liberismo, ma gli dava fiducia.
Resta sul tavolo un interrogativo decisivo per la comprensione della complessa partita politica che si sta giocando al momento nel Paese: com’è possibile che la mera messa tra parentesi di Berlusconi risulti sufficiente, a pezzi significativi dell’opposizione partitica e sociale, per sposare ciecamente la causa montiana? Come è possibile che quella stessa stampa ‘autorevole’ che ha denunciato per anni le tante nefandezze berlusconiane, dimentichi tutto da un giorno all’altro, quasi come se Berlusconi fosse svanito nel nulla, e sostenga il governo Monti, appunto, come se la tenuta di questo governo non dipendesse dalla folta pattuglia parlamentare berlusconiana?
La risposta a questa domanda, per quanto possa suonare sgradevole, sta appunto nella convergenza di interessi economici e di potere che è alla base della fallita svolta bipartitica tentata nel 2008. L’idea era quella di ridurre la dialettica politica allo scontro tra due sole opzioni partitiche, con politiche programmatiche sostanzialmente omogenee, dato che la contesa politica si sarebbe dovuta svolgere tutta e sola, spostando un po’ più destra o un po’ più a sinistra quell’ipotetica fascia di elettorato moderato e pragmatico che, di volta in volta, avrebbe scelto di votare il candidato in grado di realizzare al meglio quel programma che, in fondo, più o meno, è sempre lo stesso: più mercato e meno Stato.
Al netto delle forzature richieste dallo sforzo di sintesi, il nocciolo della questione è appunto questo: la supremazia incontestabile del mercato, con annessa riduzione di tutto ciò che è intervento pubblico e stato sociale. D’altra parte ― una volta esclusa la possibilità di incrementare le entrate, tassando le rendite e i grandi patrimoni ― il dogma dell’azzeramento del debito pubblico mediante riduzione della spesa pubblica, a cosa porta, se non allo smantellamento del Welfare? E da questo smantellamento chi altri ne trarrebbe profitto, se non chi ha capitali da investire in quei nuovi profittevoli settori di mercato che si vengono così a creare? Una volta smantellata la scuola e l’università pubblica, chi ne trarrebbe immediato giovamento se non coloro che già hanno investito e ulteriormente potrebbero investire nel settore, facendosi pagare profumatamente il servizio offerto? Idem dicasi per la sanità, per la spesa previdenziale e assistenziale, per le energie, i trasporti, i servizi pubblici essenziali e finanche per l’acqua, mercato preziosissimo, essendo legato a un bene letteralmente vitale.
L’obiettivo politico, dunque, è di assoluta evidenza: declinare la democrazia dell’alternanza, offrendo una scelta che appaia tale soltanto da un punto di vista formale, svolgendosi, poi, in realtà, tra due sole ‘opzioni’, ma fittizie, in quanto identiche nella sostanza. E se, nonostante tutti gli artifici manipolativi introdotti (compresa quella famigerata legge elettorale ora riconosciuta come indecente dalle stesse persone che l’hanno creata e che ne hanno direttamente beneficiato), questo progetto del bipartitismo coatto della falsa alternanza fallisce ― perché le forze partitiche non si riducono a due e la società civile si organizza fuori dai partiti, riuscendo persino a far rivivere l’istituto referendario ― allora si può anche mettere da parte la logica dell’alternanza e puntare tutto sull’unità politica necessitata delle forze auto-proclamatesi “più responsabili”.
Responsabili verso cosa e per soddisfare quali necessità, fermo restando quanto già chiarito fin qui, lo si capirà ancora meglio, esaminando la cosiddetta terza fase dell’attività dell’esecutivo.
***
Prima di entrare nel merito del magma vivo e incandescente del terzo capitolo di intervento del governo, quello in materia di diritti dei lavoratori, è necessario offrire al lettore qualche ulteriore indizio a suffragio della nostra tesi di fondo.Ancora una volta, è dalla illustre penna di Eugenio Scalfari che possiamo ricavare significativi elementi di giudizio sul come e sul perché si possa passare dall’anti-berlusconismo militante, alla messa tra parentesi di Berlusconi e alle cosiddette politiche unitarie, garantite dall’autorità suprema di Mario Monti.
Giusto pochi giorni fa, col suo sprezzante e banale tentativo di irridere tutto ciò che ‘osa’ muoversi fuori dal recinto della politica dei partiti sedicenti responsabili, Scalfari ha individuato chiaramente il Nemico, tentando curiosamente di emulare un modo di fare giornalismo, tipico della stampa berlusconiana (e di quello di proprietà della famiglia Berlusconi, in particolar modo).
Sulla questione ci sembrano molto incisive e dirimenti le righe conclusive del testo collettivo scritto in risposta a questo singolare modo di argomentare, da Alberto Lucarelli, Maria Rosaria Marella, Ugo Mattei e Luca Nivarra.
Righe che illustrano molto bene la divaricazione politica che si sta realizzando in questo Paese, tra spinte oligarchiche ed esigenze di partecipazione democratica:
«Si è sviluppata una spinta alla rivendicazione dei beni comuni (…) il cui filo unitario è costituito, per un verso, da un netto rifiuto della prospettiva di una integrale mercificazione del mondo e, per altro verso, da una intensa domanda di partecipazione democratica, sin qui mortificata dal micidiale combinato disposto di deriva oligarchica dei partiti e di deriva tecnocratica delle istituzioni.
(…) Più democrazia, meno mercato; più partecipazione e più valore d’uso, meno delega e meno valore di scambio: questo, in sintesi, il mondo dei beni comuni che, per dirla con Rodotà, propone un’altra politica capace di sconfiggere l’antipolitica. Si può dissentire: ma quando il dissenso assume le forme della caricatura e dell’aperto dileggio, vuol dire che quelle parole d’ordine cominciano a suscitare inquietudine in quel grande partito trasversale, a cui Repubblica dà voce, per il quale viceversa la parola d’ordine è: non disturbate il manovratore.
Un’ultima notazione. Proprio all’inizio del suo articolo Scalfari, inopinatamente imbossito, si avvale dell’elegante metafora del «dito medio» per descrivere quell’atteggiamento di ostilità a tutte le divinità in cui egli crede. Non possiamo non ricordare al nostro autorevolissimo interlocutore che, nella storia recente dei beni comuni, l’unico «dito medio» (sempre metaforicamente parlando) è quello che governo, Parlamento e Presidenza della Repubblica continuano ad alzare nei confronti del popolo sovrano dopo aver reintrodotto la disciplina dei servizi pubblici locali abrogata dai referendum (…)».
In precedenza, sempre nel solito editoriale domenicale, Scalfari ci aveva invece indicato il Bene Assoluto, in vista della prossima tornata elettorale nazionale:
«Il Pd e il Centro possono allearsi per una legislatura costituente. Possono chiedere a Monti di presiedere il governo. Monti risponderà come crede, ma ove la risposta fosse positiva penso che il Parlamento riunito per eleggere il presidente della Repubblica dovrebbe votare per un nuovo settennato di Giorgio Napolitano. Lui e Monti ci stanno portando fuori dal tunnel. Se il lavoro si deve compiere nessuno meglio di quel tandem può farlo. Napolitano ― lo conosco bene ― dirà risolutamente di no, ma se il nuovo Parlamento decidesse in quel senso penso che dovrebbe arrendersi alla volontà dei rappresentanti del popolo sovrano».
Ora, non si capisce bene se Scalfari, nel far riferimento a «un Centro ovviamente rinforzato dall’implosione del Pdl», stia invitando il PD a stringere un’alleanza programmatica coi partiti di Casini e Fini o se creda che l’UdC di Casini sia l’unico interlocutore da privilegiare, in quanto partito in grado di attrarre a sé ampie fasce del vecchio elettorato berlusconiano, ma si capisce benissimo cosa è essenziale per il fondatore di quello che ― piaccia o meno ― resta, ancora oggi, un quotidiano di riferimento per larga parte dell’elettorato di centrosinistra: per Scalfari, quello che davvero conta è l’emarginazione di ogni istanza politica che voglia ostacolare in qualunque modo la supremazia valoriale dei mercati, che la politica, invece, a quanto pare, non può e non deve far altro che assecondare.
Non è un caso, infatti, che, in entrambi gli articoli citati, Scalfari si scagli apertamente non solo contro il movimento nazionale nato a supporto della lotta per avere chiarezza sul progetto della linea Tav valsusina, ma addirittura anche contro l’istituto referendario.
Va detto, in proposito, che se le elezioni amministrative dell’anno scorso, col trionfo di Pisapia a Milano e ancor di più con quello di De Magistris a Napoli, hanno rappresentato un primo campanello d’allarme per la tenuta del progetto moderato di un bipartitismo della falsa alternanza, i 27 milioni di sì ai referendum dello scorso giugno sono l’elemento che, forse, più di tutti ha favorito l’affermarsi di un consenso trasversale sulla prospettiva di avviare una stagione di politiche di unità nazionale, all’insegna di una auto-dichiarato senso di responsabilità, che ― come abbiamo visto ― va ben al di là delle contingenze emergenziali di breve periodo (per quanto artatamente amplificate).
Ma l’aspetto che più direttamente interessa il prosieguo del nostro discorso, qui, è quello relativo all’atteggiamento preponderante assunto dai media mainstream nel trattare le questioni citate. Chiariamo subito: ciò che accomuna i referendum di giugno alla questione della Tav valsusina è appunto la modalità comunicativa prevalente che si viene a riprodurre in maniera ossessiva nel discorso mediatico. Coro mediatico e retorica argomentativa. Voci consonanti su (quasi) tutti i media per mesi, sofismi su sofismi, terrorismo psicologico, esempi emozionali tanto efficaci nel solleticare gli istinti, quanto slegati dalla realtà del caso di specie, etc. etc.
Tecniche comunicative, queste, sulle quali il berlusconismo ha costruito le proprie fortune elettorali. Tecniche comunicative che diventano doppiamente pericolose quando il coro mediatico riduce ulteriormente le voci dissonanti e lo spazio a queste concesso. Vale la pena di ricordare, infatti, che il carattere della comunicazione di massa che smette di informare per fare mera propaganda non si fonda sulla scomparsa assoluta del pensiero non omologato, ma sulla marginalizzazione e sulla mistificazione di ogni pensiero non allineato, oltre che sulla tendenza alla menzogna ripetuta incessantemente per creare una parvenza di verità.
Tutti dovremmo ricordare quante volte, nel corso della campagna referendaria dell’anno scorso, i sostenitori del nucleare da fissione hanno utilizzato l’argomento della dipendenza energetica dell’Italia da fonti di approvvigionamento estero. Argomento falsissimo e stupido, non essendo il nostro Paese un produttore di uranio. Eppure ― sebbene per la verifica dell’inattendibilità di questa informazione sarebbe bastato anche solo un rapido controllo su Wikipedia ― la menzogna è stata ripetuta ossessivamente, non solo dai comitati pro-nuke, ma anche da giornalisti dimentichi delle più basilari regole di deontologia professionale. E non è da escludere che senza la fatalità del concomitante disastro nucleare giapponese, il ruolo dell’informazione indipendente e la campagna capillare dei comitati promotori dei referendum non sarebbero bastati a far percepire l’assurdità di questi argomenti e, complessivamente, di un investimento economico che puntava all’utilizzo pluriennale di una tecnologia che risultava già obsoleta ― basti pensare al progetto sperimentale, ormai in via di realizzazione, di una centrale nucleare a fusione, per intenderci ― al momento in cui si andavano ad avviare i programmi di costruzione delle nuove centrali.
Anche la linea Tav valsusina, ultimamente, è stata oggetto dello stesso trattamento: l’opera rappresenta la modernità e chi non la vuole è un retrogrado; la sua realizzazione comporta solo innegabili benefici; gli oppositori, in ultima analisi, sono egoisti e violenti. Questo in sintesi brutale, il coro mediatico che ha occultato le vere ragioni della protesta, fondate appunto sull’assenza di una convincente analisi del rapporto tra i costi e i benefici dell’opera e sul rischio di destinare ingenti risorse ― l’opera infatti non è affatto pagata interamente coi fondi UE e le stime più ottimistiche alludono, tutt’al più, a una copertura del 40% dei costi di realizzazione ― a un progetto non particolarmente vantaggioso per la collettività, a fronte dei sostanziosi tagli alla spesa pubblica di cui abbiamo già dato ampio conto in precedenza. Soprattutto non è vero che nessuno al mondo avanza dubbi sul valore assolutamente positivo delle linee ferroviarie ad alta velocità, come è testimoniato da questo articolo dell’Economist che, in particolare, mette l’accento sul costo elevato del servizio offerto e sulla sostanziale sparizione delle tratte intermedie, conseguente alla necessità di avere pochissime fermate, in modo da ridurre ulteriormente la durata totale del tragitto tra la stazione di partenza e quella di arrivo.
E il coro mediatico propagandistico è stato il protagonista assoluto, anche nella vicenda che ha interessato e che ancora sta interessando la terza fase dell’attività del governo tecnico: quella inerente alla cosiddetta riforma del mercato del lavoro.
Un disegno di legge che il consiglio dei ministri ha approvato in data 23 marzo 2012. Esattamente dieci anni dopo la storica (e partecipatissima) manifestazione del Circo Massimo in difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: quella norma che il sedicente governo tecnico ha deliberatamente deciso di manomettere, portando a compimento il disegno del secondo governo Berlusconi, e dunque meritandosi a pieno l’etichetta tranchant di “Licenzia Italia” che Alessandro Gilioli ha prontamente affibbiato al progetto governativo, quando è stato reso pubblico, due giorni prima che venisse, poi, formalizzato come testo di indirizzo normativo.
Un testo che, nel suo punto più controverso, prevede esattamente questo:
«Per i licenziamenti oggettivi o economici, ove accerti l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro disponendo il pagamento, in favore del lavoratore, di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, che può essere modulata dal giudice tra 15 e 27 mensilità di retribuzione, tenuto conto di vari criteri.
Al fine di evitare la possibilità di ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni, di natura discriminatoria o disciplinare, è fatta salva la facoltà del lavoratore di provare che il licenziamento è stato determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, nei quali casi il giudice applica la relativa tutela».
E si capisce perfettamente che, in base a questa cosiddetta riforma, ogni persona che perderà il proprio posto di lavoro per un “falso” motivo economico, rischia seriamente di rimanere senza lavoro: questo lavoratore ingiustamente licenziato, infatti, con la nuova normativa, potrebbe essere senz’altro reintegrato soltanto qualora riuscisse a dimostrare che il vero motivo del licenziamento era un motivo discriminatorio. Riuscendo invece a dimostrare che il falso licenziamento economico nascondeva in realtà un licenziamento disciplinare, spetterebbe comunque al giudice la scelta tra risarcimento del danno subito dal lavoratore ― che, poi, dovrà ugualmente trovarsi un nuovo posto di lavoro ― e suo reintegro nel posto di lavoro ingiustamente perso.
Ed è del tutto comprensibile che la CGIL si sia opposta a questa soluzione regressiva, che Giorgio Cremaschi ha stigmatizzato alla perfezione in poche righe:
«L’articolo 18 viene semplicemente cancellato. Infatti i licenziamenti discriminatori sono vietati già oggi da qualsiasi convenzione, legge, costituzione, italiana, europea, internazionale. Ed è uno dei tanti falsi del governo che con questo provvedimento questo divieto sia esteso sotto i quindici dipendenti. Esso c’è sempre stato, ma non ha mai agito per la semplice ragione che nessun padrone è così stupido da licenziare per esplicita discriminazione personale, ideologica, razziale.
Su tutti gli altri licenziamenti, quelli veri, salta la copertura dell’articolo 18. Naturalmente salta per chi ce l’aveva, cioè per circa 8 milioni di lavoratori dipendenti. Non un piccolo numero, quindi. Ed è ridicolo questo balletto attorno all’applicazione della nuova legge nel pubblico impiego. È ovvio che sarà così, perché tutte le amministrazioni pubbliche, in un modo o nell’altro, hanno applicato lo Statuto dei lavoratori. Quindi se questo viene cambiato ne assumono automaticamente anche le modifiche.
Ma tutto questo fa parte di quel misto di incompetenza, arroganza, sfacciataggine che oggi contraddistingue l’operato del ministro Fornero e del suo Presidente del Consiglio. L’articolo 18 è la reintegra del posto di lavoro, senza di essa il licenziamento è libero.
È utile ricordare che una legge contro la libertà di licenziamento c’era già prima dello Statuto dei lavoratori, è la legge 604 del 1966, legge che prevede il solo indennizzo in caso di licenziamento ingiusto. È stata proprio l’inefficacia di questa legge a indurre il Parlamento a introdurre quell’istituto della reintegra che il governo oggi smantella in forma brutale e truffaldina. La reintegra viene abolita del tutto per i licenziamenti cosiddetti economici. In un periodo di crisi, di ristrutturazione, di esternalizzazioni, di tagli comunque definiti, questo significa licenziare a piacimento».
Ed è dunque su quel “salvo intese” ― con cui il governo ha voluto accompagnare il rilascio al pubblico del testo di indirizzo ― che ora si giocherà, in Parlamento, una partita decisiva per la sorte di milioni di lavoratori italiani, ma ancor di più per l’assetto dei rapporti di forza nell’insopprimibile conflitto che sussiste sempre tra capitale e lavoro.
D’altra parte, è evidente la rilevanza della questione, se persino l’arcivescovo Giancarlo Bregantini, capo-commissione CEI per il Lavoro, di recente, sul punto, dapprima ha affermato che «bisogna chiedersi, davanti alla questione dei licenziamenti, chiamati elegantemente, con un eufemismo, “flessibilità in uscita”, se il lavoratore è persona o merce», per poi sottolineare che, chiaramente, «il lavoratore non è una merce. Non lo si può trattare come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio».
Con il che non deve affatto meravigliare se anche Bersani, a nome del PD, e Bonanni, a nome della CISL, hanno cominciato a dare segni evidenti di una volontà di modificare la parte relativa ai licenziamenti economici, equiparando il trattamento a quello ora previsto per i licenziamenti disciplinari: lasciando dunque al giudice la libertà di decidere tra reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato nel suo posto di lavoro e risarcimento senza reintegro. Situazione che, pur costituendo un notevole passo indietro, sul piano della tutela complessiva contro il licenziamento immotivato, al momento, rappresenterebbe quantomeno una soluzione che permetterebbe di limitare i danni e di mantenere comunque, in qualche modo, ancora in piedi il meccanismo del reintegro, vera e propria colonna portante per l’efficacia dell’effetto di deterrenza dell’art. 18.
Senza modifiche, infatti, la nuova normativa produrrebbe danni considerevoli, lo ribadiamo. Con una sostanziale precarizzazione di milioni di lavoratori che, così, rimarrebbero esposti al ricatto perenne del rischio licenziamento arbitrario.
E lo vogliamo ripetere ancora una volta, essendo questo il punto decisivo della questione: stabilire per legge che una determinata tipologia di licenziamento ingiusto (qualunque essa sia) non comporta più il reintegro nel posto di lavoro, ma solo un risarcimento, significa stabilire il prezzo del licenziamento pretestuoso. Perché? Perché è tutt’altro che facile, per il lavoratore, andare poi a dimostrare in giudizio, non solo che il suo datore di lavoro ha mentito sulle ragioni addotte, ma anche che le sue reali intenzioni fossero di natura (lato sensu) discriminatoria.
In concreto, con questa norma, senz’altro, saranno direttamente a rischio i sindacalisti scomodi ― non a caso l’art. 18 è collocato nella parte che lo Statuto dei lavoratori dedica alla “libertà sindacale”― che, già oggi, patiscono la strategia da Far West della Fiat di Marchionne, come certificato proprio in questi giorni, dalle motivazione della sentenza di reintegro dei tre operai di Melfi, ingiustamente licenziati con la pretestuosa e non dimostrata accusa di boicottaggio della produzione.
Ma se poniamo mente al contenuto della riforma pensionistica ― non si può andare in pensione prima del compimento dei 66 anni di età, salvo maturazione di 41–42 anni di contributi e con le eccezioni specifiche per alcuni tipi di lavori particolarmente usuranti ― messa in campo col famigerato decreto “Salva Italia”, ci rendiamo agevolmente conto del rischio serissimo che potrebbero presto patire i tanti lavoratori ultra-cinquantenni che ciascuna azienda deciderà di dismettere, con un licenziamento individuale, motivato con ragioni economiche puramente fittizie, avendo a questo punto la ragionevole certezza di non incorrere nel rischio di doverli reintegrare. L’azienda in sostanza può decidere di optare per il licenziamento individuale, tutte le volte in cui riterrà che il calo di produttività, dovuto all’invecchiamento del lavoratore, che non ha ancora raggiunto i 66 anni necessari per godere di un trattamento pensionistico, sia più svantaggioso del pagare il risarcimento previsto dalla nuova legge per il licenziamento ingiusto.
Inutile aggiungere che chi direttamente potrà trarre profitto da questa nuova situazione sono le compagnie assicurative che, verosimilmente, molto presto, avranno nuove quote di rischio da poter coprire, oltre a quelle delle cosiddette pensioni integrative…
Di fronte a questo quadro desolante, si fa davvero fatica a comprendere la posizione assunta in proposito dal Presidente della Repubblica: che Giorgio Napolitano, infatti, decida di dimenticarsi del suo ruolo di figura super partes per sostenere pubblicamente una riforma che, a suo dire, «non può essere identificata con la sola modifica dell’art. 18» è a dir poco inspiegabile!
Certo, è vero che la proposta di riforma del governo si pone anche l’obiettivo di andare a toccare alcune delle questioni che realmente affliggono quella oramai larga parte del mondo del lavoro italiano che non gode di particolari tutele, trovandosi di fatto intrappolata in percorsi di precarietà esistenziale, che sembrano spesso non avere sbocchi. Ma non è affatto vero che per dare tutele ai precari bisogna necessariamente ridurre le tutele dei lavoratori con contratti stabili, né è vero che l’abuso nel ricorso a tipologie contrattuali a vario titolo “a tempo determinato” è l’effetto di un eccesso di tutela (la famigerata mancanza di flessibilità in uscita) del tipico contratto a tempo indeterminato.
Le balle mediatiche propagandate ossessivamente da mesi sul tema, vengono smentite dalla letteratura scientifica, ad esempio, qui, in una efficacissima sintesi di Emiliano Brancaccio, si evidenzia la totale assenza di conferma al dogma della flessibilità come precondizione per la crescita dell’occupazione:
«Su tredici ricerche realizzate sugli stock, nove di esse danno risultati indeterminati, tre segnalano che la maggior flessibilità del lavoro riduce l’occupazione e aumenta la disoccupazione, e una soltanto segnala che la flessibilità riduce la disoccupazione (…). La tesi prevalente, secondo cui la flessibilità aumenterebbe i posti di lavoro, non sembra dunque trovare riscontri empirici convincenti».
La leggenda che in Italia non vi sarebbero ingenti investimenti esteri per le eccessive rigidità sul versante dei licenziamenti è smentita dall’indice EPL (Employment Protection Legislation) dell’OCSE che è tanto più alto quanto più e difficile licenziare un lavoratore a tempo indeterminato e, al 2008, ci colloca al di sotto del dato medio: nell’area indicata, sono soltanto nove, cioè, i Paesi in cui si licenzia con maggiore facilità che nel nostro!
In ogni caso, se fosse vero che il ricorso a forme contrattuali precarie è il modo con cui l’impresa italiana cerca di sfuggire alla terribile gabbia dell’art. 18, nelle aziende con meno di 15 dipendenti ― laddove cioè l’art. 18 non si e mai dovuto applicare ― ci dovrebbe essere un boom di occupazione e tutta (o quasi) con contratti a tempo indeterminato. Situazione questa che è smentita dalla comune esperienza, oltre che dal dato Unioncamere che testimonia come, nel 2011, le assunzioni in Italia siano avvenute quasi esclusivamente nelle strutture imprenditoriali con 50 e più dipendenti e non nella piccola impresa.
Ma è assurdo continuare a sostenere che ciò dipenda dalla propagandata figura mitologica del lavoratore iper-garantito (sia chiaro: un esempio tipico di questa figura è l’operaio che sta alla catena di montaggio) e dai suoi inaccettabili privilegi (lo vogliamo ribadire: secondo il coro mediatico propagandistico, chi si deve fare ogni santo giorno otto ore di catena di montaggio è un privilegiato, perché può essere reintegrato nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento ingiusto).
Sarebbe interessante invece prestare ascolto a chi la vive la precarietà, ovvero sia a chi, da precario, insieme ad altri precari, prova a rivendicare politicamente un futuro più giusto in una società più giusta e più democratica:
«La precarietà non è la conseguenza di una generazione “privilegiata” e “garantita” che si è arricchita a danno dei propri figli. La precarietà è il frutto di scelte politiche precise di un’intera classe dirigente che con incredibile ipocrisia adesso pensa di utilizzare i giovani per giustificare l’esigenza di maggiore precarietà. La precarietà è causa della crisi, non la soluzione.
La precarietà, non solo mina la vita delle persone ma frena lo sviluppo di un Paese, dei suoi lavoratori e delle sue imprese, che scaricano la crisi sui precari senza più innovare.
È il quadro del nostro tempo. Impietoso e avvilente. Non vogliamo rimanerci imprigionati. Vogliamo uscirne in modo dirompente e svelare l’inadeguatezza delle ricette di chi il quadro lo ha disegnato scientemente».
Bisogna comprendere una buona volta, infatti, due dati di fatto innegabili:
- che lo slogan propagandistico secondo cui “le imprese hanno bisogno di maggiore flessibilità in entrata e in uscita per competere sui mercati internazionali” significa che le imprese italiane chiedono a una classe politica ― evidentemente disposta ad assecondare, senza discutere, ogni loro pretesa ― di avere la libertà di disporre dei lavoratori come se fossero cose e non persone; il lavoratore da usare solo quando serve e da gettare via appena il mercato flette (o quando il lavoratore invecchia, diventando così meno produttivo), perché ormai non serve più, finisce con l’essere così l’unica variabile della competizione internazionale; come se la produttività di un’impresa e la sua capacità di stare sul mercato non dipendessero anche e soprattutto dalle scelte di investimento, dalle innovazioni tecnologiche e dalla qualità dei prodotti realizzati.
- che in assenza di riforme che autorizzino la totale mercificazione (o reificazione, se si preferisce usare questo termine) del lavoratore, la precarizzazione di milioni di lavoratori non dipende necessariamente dalle forme contrattuali previste dalla normativa vigente, ma più esattamente dipende dal quotidiano abuso che se ne fa, in un quadro di illegalità diffusa: non è un caso insomma che il 61% delle imprese controllate dagli ispettori del lavoro, nel 2011, abbia fatto registrare la presenza di situazioni di irregolarità.
E, d’altra parte, lo stesso governo ‘certifica’ nei fatti questo stato di illegalità diffusa, quando, in sede di riforma, stigmatizza e offre (i suoi) rimedi a problemi come: quello dello stage formativo gratuito che non forma il lavoratore ma offre solo l’opportunità, alla parte datoriale, di gestire una quota del lavoro di impresa, senza dover elargire un’adeguata retribuzione; quello delle false partite IVA, dietro le quali si nasconde un rapporto di lavoro subordinato, connesso a un fenomeno di evasione contributiva; la reiterazione illimitata di contratti a tempo determinato, che nasconde un rapporto di lavoro stabile, che però non viene formalizzato come rapporto di lavoro a tempo indeterminato; e ― forse il caso più assurdo di tutti ― il contratto di associazione in partecipazione usato da alcuni negozianti per non applicare il contratto collettivo di categoria ai propri commessi, con la conseguenza che questi ultimi non solo hanno retribuzioni minori di quelle che spetterebbero loro in qualità di dipendenti, ma addirittura si possono trovare a dover subire le conseguenze dell’aleatorietà dell’attività imprenditoriale, in luogo di datori di lavoro, doppiamente disonesti, che provano a scaricare sui commessi gli effetti dei propri mancati guadagni.
Ma, se sulla efficacia dei rimedi governativi proposti, al momento, ovviamente, non è possibile pronunciarsi con certezza assoluta, quello che si può notare subito ― oltre al deliberato tentativo di precarizzare anche le esistenze dei lavoratori titolari di contratti a tempo indeterminato ― è la mancanza dello strumento principale per la risoluzione della questione del precariato di massa: una qualche forma di reddito minimo garantito, da condizionare logicamente anche alla disponibilità ad accettare le offerte di lavoro regolare, ogni volta che queste si presentino, in modo da scoraggiare eventuali fenomeni di parassitismo.
E va sottolineato che, come gli stessi movimenti di coordinamento dei precari sanno bene e ricordano a chi inopinatamente tende a parlare in loro nome, si tratta di forme di intervento pubblico perfettamente compatibili con l’ordinamento comunitario e che la stessa UE tende a promuovere.
Nello specifico è doveroso precisare che, tra i Paesi comunitari, soltanto l’Italia e la Grecia non prevedono una misura di protezione siffatta e che, per determinarne il costo, si può far riferimento ai dati europei relativi alla “Spesa per l’esclusione sociale”: questa, in percentuale di PIL, al 2009, registra una divaricazione in negativo dello 0,34%, per metterci in linea col dato medio (Paesi Membri EU27: 0,41% vs. Media Italia 0,07%).
Si tratterebbe di 5 o 6 miliardi di euro, insomma. Una cifra che ― come già abbiamo osservato in precedenza ― potrebbe benissimo essere messa a carico della rendita o dei grandi patrimoni, oppure anche dal recupero di risorse derivante dalla lotta all’evasione fiscale e alla corruzione o da un opportuno mix di tutte queste fonti di equo prelievo fiscale.
Tuttavia, ci pare evidente come (purtroppo) non sia affatto questa la direzione verso la quale ci si sta incamminando, essendo di dominio pubblico che il governo tecnico: non ritiene di particolare urgenza nemmeno l’approvazione della famosa normativa di recepimento della convenzione europea per la lotta alla corruzione, cui dovrà poi seguire una opportuna opera di adeguamento della normativa interna; mentre l’orientamento manifestato, al momento, in materia di lotta all’evasione fiscale è quello di usare le eventuali risorse aggiuntive recuperate, per ridurre la pressione fiscale.
Resta solo un ultimo aspetto da chiarire: quello che ci ha portato a definire la prospettiva di restaurazione aristocratica in atto ― che abbiamo cercato di descrivere sommariamente in queste pagine ― come una prospettiva costituente.
Ne avevamo già parlato, mesi fa, in relazione alla modifica dell’art. 81 della Costituzione. Ora, però, da più fronti, emergono timidi appelli (speriamo non inascoltati) all’attuale vasta maggioranza partitica che sostiene il cosiddetto governo tecnico, affinché si eviti di mettere mano alla Costituzione repubblicana, a fine legislatura e senza che alla cittadinanza venga lasciata possibilità di pronunciarsi democraticamente sulle modifiche effettuale.
Discorso questo che, chiaramente, vale per la cosiddetta introduzione in Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio, ma non solo.
E, sul punto, ci sembrano risolutive le riflessioni di un costituzionalista del calibro di Gustavo Zagrebelski:
«Come possiamo accettare che un parlamento tanto screditato qual è quello scaturito dalla legge elettorale attuale possa mettere mano alla Costituzione? I frutti sono il prodotto dell’albero. Nessuna speranza può esserci che i frutti siano buoni se l’albero è malato. In ogni caso, LeG [Libertà e giustizia, nda] chiede, come elementare esigenza, che le eventuali riforme possano essere sottoposte al controllo del corpo elettorale in un referendum di particolare significato: come difesa d’una democrazia aperta contro i possibili tentativi d’ulteriore involuzione autoreferenziale dell’attuale sistema politico».
Parole inequivocabili. Che davvero non necessitano di ulteriore commento.