L’anima ribelle di Leopardi raccontata da Martone grazie ad un “favoloso” Elio Germano
Parlare di poesia, raccontare la poesia al cinema è quanto di più rischioso ci possa essere sia a livello narrativo che economico al giorno d’oggi. Mario Martone con un estremo atto di follia e coraggio ha addirittura voluto portare la figura e le parole di Giacomo Leopardi sul grande schermo con Il Giovane Favoloso (definizione coniata per il poeta dalla scrittrice Anna Maria Ortese).
Che film sublime ne è venuto fuori!
Martone si è affidato totalmente alla bravura di Elio Germano con cui maniacalmente ha lavorato alle sfumature di una personalità di cui si è scritto tanto ma che non esisteva quasi a livello figurativo. Germano si è costruito l’idea che aveva del poeta di Recanati addossandosi fisicamente il peso della vita che lui aveva vissuto e rendendosi allo stesso tempo interprete e protagonista della sua poesia.
Partendo dalla gabbia didattico-religiosa di Recanati, Martone ci racconta lo stato di cattività in cui cresce Giacomo con il fratello Carlo e la sorella Paolina: costretto a studiare e ad erudirsi all’inverosimile con a disposizione una biblioteca tra le più ricche e apprezzate d’Europa, Giacomo è destinato dall’opprimente padre, Conte Monaldo, ad indossare l’abito talare per divenire un luminare letterario e a tal fine trascorre, tra adolescenza e giovinezza, anni di “studio matto e disperatissimo” che mineranno per sempre la sua non robusta salute. Nel frattempo coltiva la profonda passione della scrittura, e butta giù versi e inizia opere che lascia incompiute e che gli vengono ispirate da ciò che vede dalla finestra di casa, compresi i tratti genuini e amorevoli della giovane Teresa che per lui diventerà Silvia.
Grazie ad una corrispondenza col letterato Pietro Giordani il giovane Giacomo riesce a comprendere le potenzialità della sua poesia e la necessità di abbandonare la piccola Recanati e quella “non-vita” di clausura impostagli dall’intransigenza del padre e dal fondamentalismo religioso della madre, entrambi sordi alle esigenze e alle richieste del figlio maggiore che non vede altra via d’uscita che la fuga. Purtroppo il tentativo non andrà a buon fine e Giacomo sarà costretto a rimanere a Recanati fino al 1830, anno in cui si trasferisce a Firenze per curare finalmente la pubblicazione dei suoi Canti. Firenze per Leopardi significa sopratutto l’avvio del sodalizio e dell’amicizia con l’esule napoletano Antonio Ranieri che gli apre un mondo di esperienze e conoscenze non sempre tenere con una personalità atipica e malinconica come la sua.
Le delusioni sentimentali sono pari a quelle umane nel periodo fiorentino e le sofferenze fisiche paiono aumentare di pari passo all’evoluzione magnifica della sua scrittura che però nei salotti e tra gli editori ottocenteschi viene definita troppo pessimista e malinconica, lontana sia dalla letteratura clericale amata a Roma che da quella rivoluzionaria che gira in quegli anni in Europa. Grazie alla fine dell’esilio di Ranieri, Giacomo e l’amico decidono di partire per Napoli. Ormai Leopardi è allo stremo delle forze e cammina con difficoltà, piegato da una gobba emblematica e implacabile: Napoli gli regala attimi di vita gioiosa e ludica grazie alla plebe che, seppur impietosa davanti alla sua condizione fisica lo appella al passaggio chiamandolo “ranavuottolo”, lo coinvolge in serate di festa ridestandogli attimi di felicità e barlumi di passione che solo la penosa borghesia e l’improvviso arrivo del colera in città gli rovinano.
Deciso a fargli vivere gli ultimi istanti di vita in pace e con meno sofferenza possibile, Antonio Ranieri porta Giacomo a Torre del Greco per risiedere presso Villa Ferrigni, una splendida dimora ai piedi del Vesuvio. Leopardi trascorre le sue ultime settimane di vita nella contemplazione dello “sterminator Vesevo” illuminato dalla Luna e colorato da quelle ginestre che gli ispireranno il magnifico canto finale che come un emblematico testamento verrà pubblicato solo dopo la sua morte.
Il Giovane Favoloso è poesia cinematografica grazie alla volontà di Martone di evidenziarla non solo attraverso le immagini ma con la declamazione degli scritti di Leopardi che nell’arco del film assumono importanza centrale sia per il racconto della vita sia perché è il poeta, impersonato da Germano, a renderli vivi in prima persona. L’infinito, La sera del dì di festa, Il passero solitario, A se stesso, quel commovente e meraviglioso finale con il Vesuvio ad ascoltare La Ginestra, incorniciano un’opera di altissimo livello, degna del miglior Cinema italiano ed europeo con stile personale, di qualità, autoriale ma non certo eccentrico o ingombrante: la regia di Martone accompagna un racconto di oltre due ore esigendo un’attenzione e una partecipazione emotiva dal pubblico, una riflessione che interpretazioni come quella di Elio Germano rendono naturale e appassionante.
La sceneggiatura scritta dallo stesso regista con Ippolita Di Majo lega le varie fasi della vita di Leopardi riuscendo a non appesantire la narrazione con spiegazioni didascaliche ma non per questo elude i momenti fondamentali e gli elementi che portano alle scelte cruciali, così come la personalità del poeta non viene analizzata ma mostrata nei suoi silenzi, nella evoluzione dei suoi problemi fisici, nella malinconia sprigionata da uno sguardo, nelle reazioni isteriche solo immaginate, nelle frasi piene di passione e di rabbia come “la verità è nel dubbio” o “pessimismo, ottimismo…che parole vuote” , “odio questa prudenza, questa vile prudenza…ci rende impossibile ogni grande azione”, “io ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria ma non credo di poter vincere la mia natura”.
La ricerca di Martone ha riguardato principalmente gli elementi riscontrabili, il vero, la vita documentata attraverso gli scritti di Leopardi, le testimonianze dell’epoca e la biografia scritta da Antonio Ranieri: Martone ha cercato di raccontare l’essenza di un’anima rivoluzionaria, un ribelle del suo tempo vittima dell’estremismo della propria famiglia, della sua condizione fisica e della sua natura, lontano dai ribelli di allora, il cui pensiero stereotipato nel pessimismo da una critica letteraria troppo convenzionale, risulta al giorno d’oggi quanto mai moderno.
L’ottima riuscita de Il Giovane Favoloso è dovuta ad un lavoro di squadra pregevole con artigiani del Cinema come Renato Berta (fotografia), Jacopo Quadri (montaggio), Giancarlo Muselli (scenografia), Ursula Patzak (costumi), Maurizio Silvi (trucco); con la scelta perfetta di affidare la colonna sonora alla musica elegante di Sacha Ring, in arte Apparat, con incursioni rossiniane.
Quando si parla di squadra per un film di Martone entrano in gioco i suoi attori, quelli fedelissimi come Iaia Forte, Andrea Renzi, Renato Carpentieri, Roberto De Francesco, Enzo Salomone a cui si affida sempre anche per piccole parti sapendo di trovare professionisti straordinari, ma per Il Giovane Favoloso vanno elogiati i co-protagonisti con in testa i bravissimi Massimo Popolizio nei panni del Conte Monaldo, padre di Giacomo, e Michele Riondino, ottimo Antonio Ranieri, che aveva già catturato il regista ai tempi di Noi Credevamo e che aveva già recitato con grande affiatamento accanto ad Elio Germano in Il Passato è una terra straniera di Daniele Vicari. Non da meno Isabella Ragonese, Anna Mouglalis, Valerio Binasco, Sandro Lombardi, Edoardo Natoli, Nello Mascia, Salvatore Cantalupo nel difficile compito di rappresentare maschere di uno scenario ottocentesco particolare come quello dell’universo leopardiano.
Per definire l’essenza di un film come Il Giovane Favoloso non esistono parole migliori di quelle che Mario Martone ha usato parlando della sua opera:
La vita di Leopardi è tutt’uno con la sua scrittura, si potrebbe dire che non c’è un suo verso non c’è un suo rigo che non sia autobiografico. Leopardi sa che solo la radicale esperienza di se stessi consente la partita con la verità. Leopardi era un uomo libero di pensiero, ironico e socialmente spregiudicato, un ribelle, per questa ragione spesso emarginato dalla società ottocentesca nelle sue varie forme, un poeta che va sottratto una volta e per tutte alla visione retorica che lo dipinge afflitto e triste perché malato. Il Giovane Favoloso vuole essere la storia di un’anima, che ho provato a raccontare, con tutta libertà, con gli strumenti del Cinema.
“Così ho pensato di andare verso la Grotta,
in fondo alla quale, in un paese di luce,
dorme da cento anni, il giovane favoloso”
– Anna Maria Ortese (Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi contenuto nella raccolta Da Moby Dick all’Orsa Bianca-Scritti sulla letteratura e sull’arte Adelphi 2011)