È “Fuori luogo“, lo spettacolo di Gianmaria Testa e Paolo Rossi, l’evento più atteso dell’undicesima edizione del Festival della Mente di Sarzana. Così, di sabato sera intorno alla Fortezza Firmafede si conta un gran numero di persone in attesa dell’inizio dello show. Il giorno prima ho fatto a Gianmaria Testa una domanda a riguardo.
Quali sono stati la genesi e il motivo di fondo di ‘Fuori luogo’? E perché proprio Paolo Rossi?
Lo spettacolo nasce da un’amicizia sincera e l’idea di fondo è quella di rifare qualcosa insieme dopo ‘Rossi in Testa’. Paolo non è solo un bravissimo attore, ma anche una brava persona e con il tempo gli è venuta una capacità di sintesi tra due cose che penso siano fondamentali nella vita, l’allegria e la tristezza. A me, almeno, fa questo effetto, e quindi mi viene proprio voglia di fare le cose con lui. Su quanto faremo qui abbiamo preso delle decisioni, ma credo che lasceremo abbastanza libera la creatività. Sarà comunque un racconto di due storie che si intersecano e lavoreremo proprio sui punti di intersezione. Non ho ancora idea di come andranno le cose, posso solo immaginarlo a grandi linee.
Dall’incontro di due menti abili e vivaci è risultato un evento poetico in cui musica, risate e momenti di riflessione hanno intessuto un colorato arabesco di scambi di parole. Si è parlato di molte cose, tutte relative all’essere o al sentirsi, appunto, fuori luogo. I due si sono alternati armoniosamente, regalando quella che è stata, a tutti gli effetti, un’impeccabile comunione intellettuale.
Con il cantautore originario di Cuneo ho avuto modo di parlare di altri argomenti.
Sono convinta che nel nostro paese, paradossalmente, la cura dedicata alla cultura sia sempre troppo poca. Sicuramente il Festival della Mente è una manifestazione importante, ma credi che riceva davvero l’attenzione che gli spetta?
Ho partecipato a diversi festival di questo genere e mi stupisco sempre del fatto che, a fronte di quasi zero investimenti per la cultura da parte dello stato italiano, la gente poi se li vada a cercare. Per un anno, forse due, potrebbe essere un fenomeno di moda, ma in realtà è una cosa continua, anche in contesti più piccoli. C’è domanda di cultura. Una volta io e Giuseppe Battiston abbiamo messo in piedi a Pordenone una sorta di reading in cui la lettura di un poemetto di Pascoli del 1903 era intramezzata da pezzi che cantavo. Una sera c’è stato il tutto esaurito e ho detto al pubblico che secondo me era una notizia che i giornali avrebbero dovuto pubblicare. Tutta quella gente era venuta per l’evento, non per vedere noi. Penso che al di là di quello che ci raccontano ci sia un bisogno di porsi delle domande, di chiamarsi fuori da questo ventennio e più di disastro culturale.
Credi che sia un sentire particolarmente italiano o che sia condiviso anche in Europa?
Io spero che sia almeno europeo. Spero che nell’epoca dell’immagine – e di una comunicazione che ha qualcosa di sbagliato – le persone continuino ad aver voglia di un contatto vero, che abbiano bisogno di guardarsi negli occhi.
A questo volevo arrivare. Mi chiedevo se, proprio in quest’era dell’immagine, come hai detto tu, della comunicazione troppo veloce e di tante parole che ci arrivano attraverso canali che tendiamo a considerare assolutamente veritieri, secondo te ci sia ancora spazio per la parola sincera, dell’arte, quella bella, che viene dal cuore ed esprime un sentimento.
Lo spazio c’è, dentro ognuno. Bisogna capire quale spazio viene dato all’interno dei famosi media. Io ormai faccio questo mestiere da vent’anni e ciò in cui credo è una parola meditata, che non parte dal presupposto di attirare l’attenzione su di sé, ma che dice esattamente quello che la persona che la pronuncia vuole dire, semplicemente per raccontare la sua microscopica verità e non per ingraziarsi il favore di qualcuno. Ma a questo non siamo più abituati. La grande vittima di questi anni è proprio la verità. Ad esempio, i talkshow ci hanno propinato, consapevolmente, un modo di fare informazione per cui la verità risulta sempre opinabile. Gli spettatori si fanno un’opinione e lo fanno su qualcosa che, al contrario, non è affatto opinabile. Quando gli anchormen rivendicano la democraticità di tutto questo, mentono sapendo di mentire: chiamano le contrapposizioni apposta per spettacolarizzare la parola. Non importa che in qualche misura la verità venga a galla, basta che noi ci facciamo un’opinione. Mai come ora la cosiddetta arte può, se vuole, raccontare qualcosa di vero e credo che la gente vada agli eventi culturali per avere questo qualcosa negli occhi. Se non è così, non ci capisco più niente e finisco per sentirmi un punto interrogativo che cammina. E non si vive bene come punti interrogativi.
Immagino spesso voi artisti come artigiani che creano degli oggetti – le vostre opere d’arte – che non devono essere solo contemplati perché estremamente belli, ma che abbiano un’utilità più o meno pratica e risolvano problemi più o meno concreti. Ti riconosci in questa figura dell’artista-artigiano?
Io non mi riconosco nella parola artista. Credo che ogni secolo abbia una quota di artisti molto piccola. Per me un artista è qualcuno attraverso il quale vedo qualcosa che non avrei mai potuto vedere senza la sua mediazione.
Quindi come ti senti?
Io sono ascrivibile alla schiera di persone che raccontano. Ognuno di noi ha dei modi alternativi per raccontare le proprie emozioni, dei modi complementari alla parola parlata, che certe volte è povera. Io scrivo delle canzoni perché quello è il mio istinto. E non le scrivo perché poi vadano in radio, ma perché mi rappresentino e mi facciano compagnia se quando le canto mi riportano alle emozioni che le hanno generate. Queste per me sono canzoni di successo. Se poi piacciono anche agli altri sono ovviamente molto contento, ma non è quello il punto, tant’è che facevo il ferroviere fino al 2007 proprio per essere libero e scollegato da simili dinamiche.
Siamo immersi in quest’era digitale in cui la comunicazione, rapida e sintetica e quindi anche essenziale e distratta, avviene in una dimensione quasi asettica. Non posso pensare, però, che non vi sia ancora un bisogno di vivere delle cose belle con grande calma, in tempi molto più diluiti – ad esempio passare un’intera giornata a rimettere lo stesso disco o a leggere un libro. Come vivi questo doppio aspetto della realtà?
Devo dirti che sono presente sia su Twitter sia su Facebook, ma su Twitter, ad esempio, non ho mai scritto niente personalmente, perché mi sembra assurda questa costrizione in un numero limitato di caratteri. Molti lo trovano efficace, io non so cosa dire, non so se sia un bene o un male. Sono cose che tocco come se bruciassero, come quando ti avvicini con cautela al pentolino del latte perché, magari, il manico brucia. Mi rendo conto che è la contemporaneità, ma non penso sia necessario aderire a tutto. Dopo la seconda Guerra Mondiale c’è stata una tale accelerazione nella ricerca tecnologica che il pensiero filosofico, anche adesso, arranca dietro ogni nuova invenzione, ogni nuovo telefonino che ti permette di fare qualsiasi cosa. C’è qualcosa che non quadra. Mi verrebbe da dire “ferma tutto, rielaboriamo tutto quello che c’è almeno per i prossimi vent’anni e poi ricominciamo”, ma ovviamente non si può fare. Bisogna che nascano dei nuovi filosofi che elaborino alla velocità della luce delle teorie che ci aiutino a sopravvivere a tutto ciò che ci circonda. Ci vuole coraggio.