La modernità di Kafka risiede nella simbologia che si può ricavare da quei testi che sembrano precorrere i tempi. Densa di significati la letteratura kafkiana è sinonimo di una richiesta d’ascolto, presentandosi come l’urlo disperato di un nostro contemporaneo intrappolato nel passato. Franz Kafka, nato nel 1883 a Praga da una ricca famiglia ebrea di lingua tedesca, cresce nella capitale boema, tana delle inquietudini della Vecchia Europa e qui alimenta la sua passione per la scrittura. Kafka è sempre stato inserito nella narrativa del perturbante e considerato da molti uno scrittore totalmente infelice. In un contributo audiovisivo Rai, il critico Giorgio Manganelli definisce deforme, infimo, losco, sordido il mondo su cui si proietta il disegno di Kafka, mentre Franco Fortini, anch’egli studioso, sintetizza l’opera dell’autore praghese come momento di disperazione esistenziale e morale.
È difficile immaginare Kafka come un uomo felice ed è arduo pensare che la sua arte fosse finalizzata a un semplice desiderio di quiete interiore. L’intransigenza verso se stesso è maggiore di quella nei confronti dell’ambiente circostante, ma proprio questo attrito tra mente geniale e una bassa autostima diventa forza propulsiva che lo porta a farsi domande e a chiedere risposte. Franz Kafka è un uomo curioso e vitale, viaggiatore e analista dei propri stati d’animo: non è poi così lontano dagli attuali emigranti che lottano divisi tra l’incertezza di partire e quella di rimanere. La battaglia interiore di Kafka ha come sfondo e come ispirazione la Praga dei primi del Novecento, una città che come abbiamo detto richiama oscurità e oblio, avvolta nelle sonorità della primavera wagneriana. Una stagione quella dedicata a Wagner che divenne vero e proprio emblema di rivoluzione, non solo in campo musicale, ma anche culturale. Quindici anni di dominio assoluto sulle scene teatrali furono merito di Angelo Neumann, direttore artistico del Deutsches Landestheater di Praga dal 1885 al 1910. A Praga era impossibile rinunciare alla visione di un’opera wagneriana, anche tra i ceti più bassi erano in voga le arie più celebri di Tristano e Isotta, L’anello del Nibelungo o di Parsifal che venivano comunemente intonate per strada. Quello wagneriano fu un regime che sicuramente durò per troppi anni e che influenzò completamente la società in cui viveva Kafka che, invece, cercava qualcosa di sperimentale, che appartenesse ad una tradizione particolare in cui riconoscersi veramente.
Da qui parte probabilmente il disperato tentativo di Franz Kafka di capire il teatro e la musica. Questa dissertazione intende decifrare il rapporto che legò Kafka all’arte dei suoni, un vincolo forte per quanto contraddittorio e complicato. Fin da giovanissimo era stato sollecitato soprattutto dal padre a un’educazione musicale che prevedeva che suonasse pianoforte e violino. Non era, però, il solo ad aver coltivato quest’interesse che dopo pochi anni si rivelò essere per Kafka un’arma a doppio taglio. Gli amici più cari, Max Brod, Felix Weltsch e Oskar Baum, quelli che insieme a lui avrebbero successivamente fatto parte del «Circolo di Praga ristretto», anche loro provenienti da buone famiglie della borghesia praghese erano stati incoraggiati alla formazione musicale, ma a differenza di Kafka seppero farla diventare una vera e propria passione, di cui nutrirsi e sfamarsi. Per un certo periodo era stato anche il secondo violino di un quartetto d’archi, ma a un tratto qualcosa dev’essere andato storto: virtù scomparsa o semplicemente esaurita la dedizione? Ciò che viene più naturale da pensare è che lo scrittore ceco non avesse mai avuto una valida alternativa a cui aggrapparsi veramente. Kafka è, però, ancora attratto dalla musica, ma non si perdona di aver perso l’arte di creane una sua personale, così come invece continuavano a fare i suoi amici.
Quello che molto presto Kafka scopre della vita è che essa è regolata da caos che genera ulteriore caos e che esistono un’infinità di rumori, causa inevitabile di sconvolgimento emotivo e intellettuale. Dunque, Kafka attribuisce alla musica il potere di ridare ordine agli eventi, ma allo stesso tempo è il motivo del suo autoisolamento forzato dalla società:
Il mio stato non è infelicità ma non è nemmeno felicità, non indifferenza, non debolezza, non spossatezza, non interessamento diverso, che cos’è dunque? (Confessioni e Diari)
Non andrebbe definita disperazione la sua, quanto una scelta che lo porta a riflettere non solo sull’instabilità della condizione umana, ma anche su quelle forme d’espressione che chiariscono le differenze tra uomini ed animali, quest’ultimi utilizzati in molti dei racconti di Kafka per decifrare al meglio i sentimenti antropici.
Decisivo sarà l’incontro nell’ottobre del 1911 al Cafè Savoy con la compagnia teatrale yiddish di Lemberg, capeggiata dall’attore Jizchak Löwy, nel quale Kafka troverà un interlocutore conforme alle proprie esigenze di pensiero. In questa combriccola sgangherata di attori trova l’ispirazione adatta per uno dei suoi ultimi racconti risalente al 1922 e intitolato Indagini di un cane dall’amico Max Brod. Questo è forse il brano più accessibile per comprendere la connessione che Kafka ebbe con la musica, un rapporto luminoso a tratti, problematico per il resto della vita. Capire cosa intendesse Kafka con il termine “musica” non è per prima cosa semplice: poteva essere musica il silenzio così come il rumore, il canto come il fischio. Prima dell’arrivo di quegli attori vagabondi nella vita di Kafka questo concetto era alquanto aleatorio, ma con l’avvento dei sette cagnolini – appunto gli attori – sembra quasi che egli sia stato investito di un ruolo importante e con esso una consapevolezza più serena delle sensazioni. Kafka, che fino ad allora si era sentito “murato vivo dalla musica” e aveva cercato sempre il silenzio più totale per la composizione delle sue opere, decide di rivestire in questo racconto i panni di un cucciolo di cane, ancora inesperto della vita, che viene rapito dal fracasso che questo gruppo mette in scena, così come se il teatro fosse prima di tutto suono e luce. C’è qualcosa di incantevole e ammaliante che lo porta a restare e ad osservare quest’inconsueto spettacolo, non propriamente definibile arte, ma sicuramente percepito come provocatorio:
Non parlavano, non cantavano, tacevano in complesso, quasi con ostinazione, eppure per magia evocavano la musica dal vuoto. Tutto era musica, il modo di alzare e posare i piedi, certi movimenti del capo, il modo di correre e di star fermi, di aggrupparsi, le loro combinazioni di danza quando, per esempio, uno posava le zampe anteriori sulla schiena dell’altro e poi si allineavano in modo che il primo stando ritto reggeva il peso di tutti gli altri, o quando strisciando col ventre quasi per terra formavano figure intrecciate e non sbagliavano mai. (Indagini di un cane)
La musica si sveglia e rinasce dalle ceneri come l’araba fenice, ma a scatenare quel fragore armonioso sono persone che indossano vesti modeste – che siano quelle di cani o di miserabili sembra non avere importanza – ma che realizzano uno dei più grandi desideri di Kafka: l’appartenenza a un gruppo sociale. La musica è la vera anima di quel teatro e pian piano lo diventa anche se non sempre consapevolmente anche per Kafka. Ogni movimento così come in scena anche nei testi dello scrittore praghese viene accostato o addirittura condotto da una serie infinita di rintocchi sonori. La musica è la vera cesura nell’opera kafkiana, proprio per il suo carattere così netto, capace di divertire, emozionare e spaventare. Ogni elemento di disturbo acustico fa parte di un linguaggio più ampio nella narrativa del celebre autore novecentesco, che serve a restituire al lettore familiarità con gli spazi e dando voce ai personaggi rappresentati.
La musica l’aveva fatto sentire distante dalla società e ora insieme ai teatranti di Lemberg è nuovamente capace di percepire l’appartenenza a un popolo. In Kafka gli ebrei occidentali e quelli orientali possono finalmente unirsi nel gergo, abbandonando le paure e dimenticando pregiudizi secolari. La lingua yiddish è assimilabile ad un canto dialettale, basato sui racconti della tradizione orale e per questo immediata per i parlanti, insensata per chi non comprende l’idioma. La verità si nasconde essenzialmente nel punto più lontano dal pensiero dove si concentra il silenzio: quella è la strada principale verso la conquista del gergo:
La melodia talmudica di precise domande, scongiuri o spiegazioni: l’aria entra in un tubo e se lo porta via, in compenso da piccoli lontani inizi una grande elica. Orgogliosa nel complesso, umile nei giri, va incontro all’interrogato. (Confessioni e Diari)
Non c’è angoscia, paura o più semplicemente ottusità in quest’incontro, anzi si può dire che l’apertura mentale di Kafka sia maggiore a quella di qualsiasi altro suo contemporaneo. Sono la curiosità e l’ambizione all’armonia a far sì che i significati racchiusi nei suoi scritti non possano leggersi solo in chiave puramente negativa.
Sono numerosi gli esempi che si possono trovare nei suoi racconti e nei suoi romanzi. Partiamo da Descrizione di una battaglia, nell’episodio di Storia dell’orante in cui il protagonista durante una festa sente la necessità di suonare il pianoforte pur non sapendo farlo. Questo proposito è dettato dal bisogno di porsi al centro dell’attenzione per poter godere di un briciolo, ma non per questo meno irrisorio momento di felicità. La musica è concepita in questo caso come abbiamo precedentemente notato come strumento comunicativo, ma anche come pretesto per prendersi la rivincita con se stessi.
L’elemento acustico non manca neppure in quello che forse si può considerare il suo più celebre racconto La Metamorfosi. Gregorio Samsa, l’uomo che svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo, dopo aver fatto della sua camera da letto una prigione per troppo tempo, un giorno, avendo sentito la sorella suonare il violino per un gruppo di pensionanti, apre la porta della stanza fino ad arrivare in salotto, dove tutti avrebbero potuto vedere le sue fattezze mostruose:
Era risoluto a spingersi ancora avanti sino alla sorella, a tirarla per la sottana e a farle comprender così di venire col violino nella sua camera, poiché nessuno lì apprezzava la sua musica come lui. (La Metamorfosi)
Qui l’intensità della musica serve a risvegliare l’animo umano, sensibile di fronte ai ricordi. Chi impara ad amare certe sequenze musicali non può dimenticarle mai, neanche se un ripugnante insetto ha inglobato l’essere umano di bella presenza che esisteva prima.
Disorienta e ferisce uno degli ultimi racconti scritti in vita da Kafka, Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi. Giuseppina appartiene ad un popolo che per comunicare è solito fischiare, lei, però, a differenza di tutti gli altri sa cantare. Il suo pubblico che, come abbiamo detto è abituato a fischiare, durante i suoi spettacoli rimane in silenzio, rispettando la sua arte:
Quel fischio che si leva, mentre a tutti gli altri è imposto il silenzio, giunge ai singoli quasi come un messaggio del popolo; il fischio sottile di Giuseppina in mezzo alle gravi decisioni è quasi pari alla misera esistenza della nostra gente in mezzo al tumulto del mondo ostile. (Giuseppina la cantante)
Quello che sa fare probabilmente Giuseppina non è cantare, ma semplicemente sapersi elevare sopra tutti gli altri, distinguendosi da chi rimane nell’ombra in silenzio. La forza della sua musica sta nel saper farsi ammirare, per dirla con le parole di Deleuze e Guattari opera forse una riterritorializzazione del fischio tradizionale e lo libera dalle catene dell’esistenza quotidiana.
Anche nei romanzi non mancano suoni e silenzi carichi di significato. In America il protagonista Karl Rossman viene spronato dalla signorina Klara, figlia di un amico dello zio, di suonare qualcosa per lei al pianoforte. Karl per gentilezza accetta la proposta della sua ospite, ma la sua insistenza aumenta in un crescendo pagina dopo pagina. Karl è a dirla tutta un principiante e quando si siede al pianoforte per eseguirle qualche canzone è come se riconoscessimo immediatamente un giovane Kafka che riluttante si applicava negli esercizi:
Era una canzoncina che, come lui ben sapeva, avrebbe dovuto essere suonata piuttosto lentamente per poter essere ben interpretata, soprattutto dagli stranieri; tuttavia la strimpellò nel più precipitoso tempo di marcia. Quando ebbe finito, il silenzio della villa, infranto, piombò di nuovo addosso a loro, opprimente.
Il silenzio rimbomba più forte di qualunque rumore o musica in Kafka, lo possiamo constatare anche all’interno de Il Castello, quando l’emissione sonora corrisponde ad una precisa, quanto amara rievocazione del passato del protagonista, K. :
Quasi in segno di temporaneo commiato, risuonò da lassù un tocco di campana, gioioso e alato, un tocco, che, almeno per un attimo, gli fece tremare il cuore, quasi lo minacciasse, perché il rintocco era anche doloroso, l’adempimento delle sue incerte aspirazioni. (Il Castello)
Possiamo, quindi, dedurre che Kafka non potesse permettersi di lasciare nulla al caso; per decifrare i suoi testi basterebbe sfogliare con attenzione i Diari e non sarebbe difficile trovare ogni volta il passo preciso da cui attinge per varcare la soglia tra realtà e fantasia. Il frastuono era in Kafka elemento primario, ripudiato, ma complice dei più meritati riconoscimenti postumi, e spettacolarizzazione diretta di una vita intensa, ma di certo non disperata.
In uno dei suoi frammenti elabora un’attenta rivisitazione del mito di Ulisse e delle sirene. Queste creature del mare posseggono un’arma ancor più temibile del canto, e cioè il loro silenzio, ma solo Odisseo, più scaltro delle donne alate, era riuscito a scampare al pericolo. È, dunque, l’assenza di rumori il vero nemico dell’uomo?
A conferma degli esempi riportati, il tormento di Kafka non deriva tanto dall’incapacità di comunicare attraverso la musica, quanto dalla preoccupazione di esaurire i suoi giorni nel silenzio. L’inquietudine che egli prova è quella del baccano generato dalla propria mente, non al di fuori di essa. L’armonia non è muta, ma si delinea ordinando tra loro gli elementi polifonici del creato: un’angoscia inesprimibile con il linguaggio verbale, che si può dimostrare solo con la verità.