Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate.
Nelle parole premonitrici di Francesca Woodman, fotografa americana di Denver, ritroviamo tutta quella malinconica eleganza e il senso di tristezza antica che le sue immagini sanno evocare.
“Some Disordered Interior Geometries” era il titolo che la giovane fotografa aveva dato alla sua prima ed unica collezione fotografica da lei pensata e presentata prima del suicidio (19 gennaio, 1981), chiarendo sin da subito il suo personalissimo spazio d’azione. Disordinate geometrie interiori che il suo corpo, fotografato ossessivamente dall’età di tredici anni, disegna nello spazio popolato da oggetti tra i quali si confonde e si nasconde.
Un corpo intrappolato negli specchi in cui si riflette, assorbito dalle pareti che lo inglobano, costretto nella plastica che lo avvolge, sospeso nello spazio che incarna; un corpo che si fa cosa tra le cose, che si mimetizza con l’ambiente circostante fino quasi a scomparirvi, ora in interni che somigliano a gabbie, ora in esterni di grande potenza espressiva, dove la fragile figura di Francesca s’immerge nella Natura, fino a diventare fiore, pianta, radice.
Nei suoi autoritratti, realizzati rigorosamente in bianco e nero, con esposizioni lunghe e doppie esposizioni che le permettevano di partecipare attivamente alla scena e divenirne il soggetto principale, il corpo non è utilizzato come sovrastruttura culturale così come alcune letture di stampo femminista hanno cercato di interpretare, riducendone la portata artistica, ma in quanto strumento che dialoga con l’ambiente circostante, naturale o architettonico, che lo confonde e lo assorbe, come lei stessa amava ripetere.
Il corpo come soggetto e oggetto dell’interrogazione artistica, il corpo come scenario della mutabilità ed inconsistenza del reale. Nella rappresentazione fotografica Francesca Woodman sperimenta lo sfaldamento dei lineamenti del viso reso irriconoscibile o cancellato dal movimento, in un’alternanza di presenza e assenza che, prima ancora di essere cifre stilistiche, sono categorie dell’essere su cui poggia tutta la sua inquietudine di donna e artista.
“…la cosa che mi interessava di più era la sensazione che la figura, più che nascondersi da se stessa, fosse assorbita dall’atmosfera, fitta e umida”, spiega Francesca per illustrare l’idea alla base di Self Deceit, serie di autoritratti in cui il gioco di apparizione e occultamento risulta amplificato dalla presenza dello specchio, elemento in cui perdersi e mai riconoscersi, strumento attraverso cui realizzare la metamorfosi dell’identità fisica e spirituale.
Un approccio simile lo ritroviamo negli scatti presenti in House, dove la trasfigurazione del corpo avviene attraverso la compenetrazione dello stesso in oggetti domestici, per mezzo di dissolvenze che mimetizzano la figura umana fino a renderla altro da sé, nel tentativo, raggiunto in modo eccellente, di raggiungere un equilibrio, per quanto fugace e temporaneo.
Francesca Woodman fotografava idee, come nell’immagine forse più emblematica dell’intera produzione, in cui l’artista raffigura se stessa appesa ad uno stipite, quasi fosse crocefissa, inchiodata al legno dell’umana solitudine, in una posa che assume un valore universale, dall’altissimo potere emotivo. Ma il piano visivo domina sempre quello speculativo, dal momento che “la teoria dietro l’opera è importante ma per me è sempre secondaria alla soddisfazione dell’occhio”.
Allora nell’opera, breve ma intensa, di Francesca Woodman, l’immagine non fonda il reale, ma cerca di mostrare l’invisibile attraverso il visibile, di indicare dei percorsi da seguire e da inventare, ciascuno con le proprie sensibilità e profondità. Giocare con il proprio corpo, entrare ed uscire da sé, essere presente un istante e poi sparire. Prima per l’arte, e poi per sempre.
*Francesca Woodman nasce a Denver il 3 aprile 1958. Figlia d’arte, il padre George era un pittore, la madre Betty una ceramista, scopre prestissimo la passione per la fotografia. Frequenta la Rhode Island School of Design, dove coltiva l’amore per le opere di Man Ray, Duane Michals e Arthur Fellig Weegee. Dopo aver trascorso molte vacanze estive della sua infanzia a Firenze, torna in Italia, a Roma dove frequenta i corsi europei della RISD e viene a contatto con l’ambiente della Transavanguardia artistica.
Nel gennaio del 1981 pubblica la sua prima ed unica raccolta di fotografia dal titolo Some Disordered Geometries. Nello stesso mese compie il gesto disperato che pose fine alla sua breve e fragile esistenza. All’età di 22 anni si suicida gettandosi dalla finestra dello studio newyorkese nel quale lavorava.