Il mio viaggio parte da Bologna, all’una e mezza di notte, davanti alla stazione, con un pullman da prendere, assieme alle badanti che tornano a casa per le feste. Il conducente non sa l’italiano, l’unica cosa che sa dire è Vienna, mentre mi prende lo zaino e, senza troppa cortesia, lo lancia dentro al porta bagagli. La mia destinazione è Bratislava, capitale della Slovacchia, i soldi non sono tanti e il pullman è il mezzo più economico. Mi aspettano 14 ore sullo stesso sedile, tra i vetri appannati dai respiri dei passeggeri e la musica delle mie cuffie. Prima di Vienna ci fermiamo in realtà in altre città italiane, l’unica vera sosta la facciamo all’ingresso in Austria, per non più di dieci minuti, ma è come respirare per la prima volta. Arrivo a Bratislava che è già pomeriggio, con un’ora di anticipo, inizia già a calare il sole. Il mio ostello è pieno di italiani, si trova su Šancová, una delle strade più importanti della città, non troppo distante dal centro ma abbastanza per vedere le tipiche caratteristiche che accompagnano le periferie delle capitali. Le vetrine dei negozi sbarrati su cui sono attaccati i manifesti che pubblicizzano eventi passati da anni, le case con le tinte sbiadite, gli odori delle bancarelle che vendono cibo e alcolici 24/24. Quelle zone che non trovi sulle guide Routard o Lonely Planet, perché sanno troppo di vero e i turisti vogliono andare nei bei posti. Io, mio malgrado, ci sono finito. All’ostello conosco Jakob, che lavora al bar sotterraneo, arredato come l’Hostel di Tarantino & Roth. Mi lasciano un biglietto per il drink di benvenuto, la borowizta, l’alcolico nazionale, forte come gli uomini di quelle zone, se non si ha uno stomaco allenato è sconsigliato accettare quello che vi danno in questi paesi. Faccio un giro veloce per la città, mi accorgo subito delle dimensioni ridotte dalla facilità con cui ci si orienta o, forse, perché mi ritrovo sempre nello stesso punto, un po’ come la storia delle nostre vite.
Il secondo giorno inizio a girare per la città, con le ginocchia ancora bloccate dal viaggio e con gli occhi che vibrano ad ogni folata di vento, non c’è troppo freddo, ma l’aria è tagliente. Il cielo è grigio, si riesce persino a guardare la linea del sole ad occhi nudi. Al bar dove faccio colazione qualcuno beve già della birra che, per quel che costa, ti tenta davvero. C’è tutto chiuso, per celebrare la festa della Repubblica. La città, almeno il suo centro, è davvero piccolo, si gira in meno di un’ora e si riconoscono già i primi segni di una città che sta lentamente facendosi divorare dal consumismo globale. Nella piazza Principale si infiltrano i negozi di souvenir e i fast food, che poco c’entrano con le architetture in cui si trovano, ma sono sempre pieni, forse perché è un comune denominatore, per sentirsi a casa anche quando si è lontani. Me ne accorgerò di più alla sera, quando camminando nei dintorni della chiesa di San Martino, la più antica e più bella, due ragazze mi inviteranno in uno strip club. Masse di turisti si accalcano per fare le foto alle statue sparse per la città, con il loro carico di banalità e di sorrisi idioti, mentre una guida seccata gli racconta qualche leggenda che, poi, mi riferirà Jakob essere falsa, creata solo per dare qualcosa in pasto ai turisti nel periodo post comunista. Quando esco dal centro capisco perché Bratislava è da sempre considerata la ‘città triste e grigia‘ dell’Europa Orientale, lontana dalla bellezza di Praga, più vittima del periodo comunista che di quello romantico. Basta allontanarsi poco per trovare i palazzi del vecchio regime, imponenti e solitari, con la capacità di tingere il cielo di grigio, in forte contrasto con le volontà rinnovatrici di una città in forte espansione, che costruisce i suoi centri commerciali di ultima generazione e i ponti a forma di ufo. Bratislava è una città in continua trasformazione, in cui si unisce il passato con il futuro, l’orientale con l’occidentale, il rococò dei muri blu di Santa Elisabetta con il liberty delle poste centrali. Una città senza bussola, come chi la vive, tra lo stile europeo e quello del vicino est, incerta tra ciò che era e ciò che sarà. Di questo mi parla Jakob, davanti ad una birra, tra una sigaretta e l’altra, di come ancora siano lontani dalla piena democrazia, dell’avanzata della destra nazionalista, dei problemi di chi cerca di essere al passo con i tempi eppure ha ancora il peso del comunismo sulle spalle. Ed è un aspetto che non passa inosservato se lo si vuole vedere, come le strade vuote a Budapest, in Ungheria, ma siamo diventati ubriachi delle birre a poco prezzo di quei posti troppo presto per volerlo.
Il terzo giorno piove, o forse nevica, giro senza meta per la città, che ormai non nasconde più tante sorprese, se non le persone che incontro. Entro alla facoltà di Filosofia, che sta su Safarikovo, l’ennesimo palazzo imponente, dove mi ferma il guardiano con cui cerco di farmi capire. La facoltà è, ovviamente, chiusa, le luci sono tutte spente, c’è una scultura al centro dell’atrio e una donna al buio da sola, sembra di essere in una di quelle vecchie stazioni dei film in bianco e nero. C’è qualcosa di comune tra le persone di Bratislava, nei più giovani come nei più vecchi, che traspare dai loro occhi chiarissimi, come una lotta interiore tra l’apertura e la diffidenza tradizionale, in una cultura chiusa e cordiale allo stesso tempo, muri che erano già caduti dall’89. Mi è ancora più chiaro quando, al Múzeum Mesta, una donna mi ringrazia per aver firmato il quaderno di una mostra di un fotografo locale, come se avessi fatto un favore io a andare alla mostra e non loro a farmi entrare. Ma, questo, è la cultura quando è in espansione, forse ce lo siamo dimenticati, da quando è diventata un’industria. Pochi particolari ci impressionano ancora, i grandi castelli, le strutture inusuali e mai i gesti che abbiamo dimenticato, viaggiare ogni tanto ce lo ricorda. Dappertutto, per la città, ci sono dei graffiti e dei vicoli che ti portano in nuovi posti, lontani dalle strade battute dalle fotocamere assatanate di ricordi e sono le poche cose che ancora si oppongono alla conquista dei turisti. Ma anche questa è Bratislava, una città dei balocchi per gli europei in fuga dal prezzo delle sigarette sempre più alto, dagli alcolici a basso prezzo e ogni possibilità. C’è pieno di italiani che schiamazzano alla sera, forse loro, più di altri, hanno bisogno di sentirsi ricchi in questo momento e non posso biasimarli, qui sembra tutto più economico. Prima che faccia sera attraverso il Danubio, ma più in là della parte est della città è meglio non avventurarsi, perché, a quanto mi ha detto Jakob, lì ci sono i peggiori quartieri, un altro punto che non troverò sulla Routard che ho lasciato in libreria.
C’è una canzone che mi ha tormentato per tutto il viaggio, che più che una canzone è una rilettura di Baudelaire fatta da un cantautore francese, Damien Saez, di Femmes Damnées. Non è un caso, c’è anche un’anima malata, oltre alla periferia e ai luoghi turistici, a Bratislava, come in tutte le città. Un’anima che si colora di verde come il suo assenzio e di blu con gli occhi delle sue donne per strada, forse anche la più vera, quella che ti fa bruciare il petto da dentro, come il sentimento di un viaggiatore quando ritorna a casa. E mentre salgo sul pullman per l’Italia capisco che, poi, ogni città ha sempre il suo segreto e che anche quella più povera e con meno attrazioni ha qualcosa da dirci.