Cambiare diventa un leitmotiv per ogni generazione, si cambia perché non se ne può più, si cambia per necessità e, a volte, per dovere. C’è sempre bisogno di qualcuno che lo racconti e, se le parole non bastano più o risultano troppo legate al passato, tocca all’arte farsene interprete, in un clima di difficile comprensione e instabilità. Cambiare è, non a caso, il tema scelto per l’ottava edizione di Fotografia Europea che, a Reggio Emilia, riesce a raccogliere artisti e visitatori da tutto il mondo, già 65mila nelle prime tre giornate. Perché il cambiamento ha più caratteristiche e ha bisogno di essere raccontato anche in quelle meno appariscenti, noi vi proponiamo quelle che ci hanno colpito di più.
Ricordare. Alcune storie fanno ancora male, soprattutto se non eri neanche nato quando sono successe e ti trovi la desolazione che si sono lasciate dietro di sé. Bruciano i resti di Chernobyl e delle sue giostre, i visi di chi non ce l’ha fatta e del grande silenzio che la divora ancora nelle fotografie di Sergey Shestakov. “Journey into the future. Stop #1” ci porta in questa landa surreale, divorata dall’esplosione e dall’abbandono, in immagini che colpiscono per la rudezza dei suoi soggetti amari, arsi dal tempo e dalla polvere. C’è una lista di nomi e una macchina che ha smesso di scrivere che fanno nascere un’inevitabile senso di responsabilità. Un sentimento amaro e di contrasto, nella nebbia di quella città, che solo una fotografia che non cerca giustificazioni può lasciarti.
L’idea per il titolo mi è venuta quando ho visto, in un asilo di Pripyat, una copia semidistrutta del libro di Zoja Voznesenskaja Journey to the Future. Mi sono limitato ad aggiungere il sottotitolo Stop No 1, perché Chernobyl non è l’ultima stazione di questo viaggio. Oggi, che siamo già alla seconda fermata, le persone devono decidere che direzione prendere, su quale linea vogliono proseguire il proprio viaggio. È tutto nelle nostre mani. (Sergey Shestakov)
Raccontare#1. “Datazone” di Philippe Chancel descrive, in un ironico utilizzo del reportage contemporaneo, le contraddizioni della nostra epoca. Si parte dalla folle ricerca di affermazione internazionale della Corea del Nord, che oppone i visi senza sentimenti di dei suoi abitanti alle minacce internazionali, in un desiderio di rivalsa e smarrimento. Si passa, poi, alla luce sotto i grattacieli di Dubai, dove la corsa verso il cielo sembra lontana dal potersi fermare, fino al vuoto sotto alle macerie di Fukushima e di Haiti dove, ancora, sembra impossibile ricominciare. Un linguaggio giornalistico che non per questo si perde nel semplice ruolo di illustratore della cronaca, trasformandosi, invece, nelle pagine di un vero racconto. Un esempio di come la fotografia si possa impersonificare nell’interlocutore principale dei cambiamenti.
Ricordare è Raccontare. La tecnica fotografica non fa prigionieri, si può dimenticare il soggetto, non volerne comprendere il significato ma quello che suscita nelle pupille, una volta avvertito, non si stacca più. Questa realtà ci è chiara da tempo, già Nadar scriveva, agli albori di questa arte, che: «Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.» La ricerca di Alessandro Rizzi nel suo lavoro “Theater Translation” sembra unire i due temi precedenti, quelli del ricordare e del raccontare. Ritornare in una struttura di grande importanza culturale quale fu il teatro sociale di Gualtieri (Re) nasce forse dal desiderio di ricordarne le grandi possibilità. Quello che si racconta sembra essere, invece, una drammatica profezia. La decadenza delle sue strutture sembra preannunciare un pesante sipario che si sta abbattendo sulla cultura italiana, spazio per un’arte che seppur in stato di abbandono mantiene un grado di interesse elevatissimo e continua a vivere.
Subire. Gli attori del teatro di Rizzi sono, passivamente, gli artefici del cambiamento che stiamo vivendo. La disillusione infantile si fa strada nel racconto per immagini “The wonder-house of Anna & Eve” di Viktoria Sorochinski, ritratto di una generazione che deve fare i conti con colpe che non gli appartengono. Nel volto dolce amaro del disincanto, gli occhi blu ghiaccio di questa piccola Alice che non trova più il paese delle meraviglie colpisce anche i più ottimisti e fa salire i brividi anche nei più sicuri. I giocattoli sono segno di un’infanzia che non c’è più e in cui, attorno, regna il silenzio. Le braccia di Anna che non sanno più come proteggere la piccola creatura davanti a sé, in una moderna Pietà che non ha neppure più lacrime da spendere, mentre lo sguardo severo di Eve sembra denunciare questa condizione. Una tecnica fotografica che si mischia con quella della pittura, nel modo di ricreare scene e sentimenti nascosti nel più profondo.
Estraneità. L’esposizione collettiva “Vita Nova” è forse quella che colpisce di più per il tema affrontato e il suo forte desiderio descrittivo.
Nei giovani ritratti affiorano le ansie, le necessità di chi, suo malgrado, è nato come oggetto di una ricerca pubblicitaria. La volontà di apparire ed essere apprezzati, in cui la provocazione dell’affermarsi contrasta ancora con gli oggetti dell’infanzia è la chiara denuncia di Evan Baden nella sua “Technically intimate”. C’è il gusto amaro dei sobborghi e dell’estraneità di Lise Sarfati (Eve-Claire #05), ci sono i visi dei giovani russi di Tobias Zelony. Ritratti complicati e diversi tra loro che contribuiscono, insieme, a
descrivere un mondo giovanile pieno di difficoltà nell’accettare gli altri e sé stessi, alla costante ricerca di un posto nel mondo. Essere consumatori è difficile, si sa, soprattutto per le etichette che ti si attaccano addosso.Il valore di queste opere nasce dal forte contatto e dall’evidenza che i fautori del cambiamento non possono che essere i giovani, quelli abbandonati, quelli costretti ad essere altro. È essere estranei di se stessi il rischio che viene denunciato, se si è costretti a fingere o ad accettare il ruolo di semplici comparse.