I Fine Before You Came sono una formazione più unica che rara in Italia, quel poco chiacchiericcio che si fa su di loro non lo si deve alle scaramucce interne alla band, ma alle molte idee che li portano sempre sul pezzo. Non si perdono in un bicchiere d’acqua come capita a tante matricole e meteore del panorama nostrano, sia che si tratti di collaborazioni che di progetti paralleli. Dal 1999 i cinque componenti del gruppo sono rimasti gli stessi, Jacopo, Mauro, i due Marco e Filippo. Non sono fuggiti o inciampati, per più di un decennio tenaci e resistenti alle bufere del mercato.
Sono usciti a sorpresa lo scorso giugno con l’Ep, Come Fare A Non Tornare, che è un flusso di coscienza dall’impatto torrenziale, sospinto dalle vivide immagine di una quotidianità di pensieri, niente di più, niente di meno. L’inatteso ritorno degli FBYC, però è ben più che un’esplosione improvvisa: parlare di dischi della maturità in alcuni casi vale anche per gli Ep, ed è proprio questo il caso di dirlo. La voce quasi marziale del frontman Lietti, che conduce alla semplice constatazione che dovremmo tutti guardarci dentro un po’ più a fondo, non è solo un grido disperato, ma l’eco glaciale di un disperso nei boschi, è la favola raccontata da un cantastorie del nostro tempo che un po’ si scalda, un po’ aspetta paziente di concludere la sua storia per arrivare alla morale.
Dove è sparita la rabbia al suo posto c’è una sfida più reale ed intima. Come fare a non tornare, sembra quasi che dietro a questa affermazione si nascondano un quesito e una tacita risposta. Tornare significare camminare, macinare chilometri, sogni e polvere, sull’asfalto rovente o tra le intemperie. Dopo la Sfortuna e l’Ormai, non rimane che rimettersi sui propri passi, anche se una piccola speranza rimane in vita.
Discutibile è la traccia più adrenalinica della raccolta, il resto è quiete, disillusione, incertezza su un futuro che non esiste più. A quella cosa che partire è un po’ morire non ci crediamo nemmeno un po’, chi l’ha detto non ha mai viaggiato o non ha mai fatto ritorno.
Questi testi e queste massime sono il punto forte di un lavoro che non ha pretesa alcuna, se non quella di dir la verità. Come in Alcune Certezze dove la soluzione ai miei problemi sembra sempre la causa dei tuoi, non c’è possibilità di compromesso o di falsa testimonianza, è la sincerità di un momento che spazza via il caos. Suoni ripetitivi e taglienti come il ghiaccio vengono assorbiti dall’atmosfera claustrofobica e grigia, di una monotonia avvilente.
Ne Il pranzo che verrà sono il buio e la luce a scontrarsi e nella ripetitività di un pianoforte a coda con la sua ossessione circolare appare il cambiamento autentico, così come in Una provocazione, quella jungla dello spazio siderale. Cosa vuoi che ti dica, vado avanti cosi finché dura. Il reale appiattimento degli stati emotivi è la piaga degli individui che formano la società, che dovrà poi decidere e mandare avanti il mondo, lo spiegano gli FBYC con serietà.
Un disco da leggere prima di tutto e da riguardare come un’istantanea color seppia a distanza di anni.