Guardare al mondo da unposto buio e freddo: questo è Alaska, terza fatica dei Fast Animals and Slow Kids, ragazzini ormai cresciuto tra le next big things degli ultimi anni, e alla ricerca della definitiva consacrazione con un lavoro il cui titolo è tutto un programma di ghiaccio & granito.
Dagli esordi di Cavalli, il quartetto di Perugia ha saputo insegnarci una lezione preziosa: l’abito fa il monaco, e nessun monaco sa cambiare d’abito come la musica rock (nel senso più stretto del termine), a dispetto delle waves che, all’estero quanto nel nostro paese, lo hanno a più riprese dato per spacciato. Alaska costituisce un ulteriore passo avanti in questo processo di revilitazzione, ed un’occasione per la band per consolidare il sound che ormai li rende riconosciuti ed apprezzabili: enormi chitarre rocciose, beat dilatati e imponenti, una voce aggressiva e graffiante.
I Fask ci accompagnano per mano dentro il loro nuovo lavoro con un’Ouverture dagli archi lenti e malinconici, ricalcando nella funzione quella meravigliosa (e giovanilmente coraggiosa) dichiarazione d’intenti che era Un pasto al giorno. I Fast Animals però sono cresciuti, e la profonda eco della voce di Aimone Romizi ce lo fa notare fin da subito: “Scusa, mi lascio andare per un po’”, queste le prime parole di un disco che si preannuncia maturamente cupo. Il Mare Davanti si conferma infatti una sofferta dichiarazione d’aiuto quando gli spontanei entusiasmi giovanili lasciano spazio alla disillusione e ad un’energia che deve trovare altrove le sue fondamenta; la risposta a queste angosciose domande sembra però venire dal potente sound della band, tra muri di chitarre tutti da scalare e compatti set di batteria che vi spaccheranno i timpani. Atmosfere che vengono riconfermate anche nel singolo Come reagire al presente, brano che porta con sé una dolorosa (ma titanica) riflessione sulle ambizioni, le paure e le responsabilità connesse al fare musica a vent’anni. Tra Coperta e Te lo prometto le sonorità di Alaska respirano di più, si aprono alla melodia senza perdere la loro consueta energia, ricordandoci che quando stai sfiorando il Circolo Polare, a tanti giorni di buio totale corrispondono altrettanti giorni di sole. Allo stesso modo, la voglia di affrontare ogni ostacolo nonostante le difficoltà affiora in Calci in faccia, e si realizza nel mantra del pezzo, quel “Non – avrò – mai più – paura” che si trasformerà senza difficoltà in un anthem da concerto. Le chitarre cupe, gli archi e le grida strazianti di Con Chi Pensi di Parlare ci riportano alle atmosfere iniziali dell’album, riconfermate poi in Odio Suonare, una cinica – e forse velleitaria – presa di distanza dalla musica, stigmatizzato strumento di comunicazione tanto potente quanto pericoloso.
L’amarezza però lascia spazio all’abbandono in quella toccante ballata che è Il Vincente: eh sì, avete letto bene, anche i Fask hanno scritto una ballata ma non c’è niente di male, per poco più di due minuti ci lasciamo trascinare giù dagli arpeggi di pianoforte e dal meraviglioso arrangiamento di archi di questo brano, mentre ci prepariamo al Gran Final, una preghiera a se stessi in cui si mescolano il desiderio di andare avanti e la tentazione di restare dove si è, una marcia dai toni epici, grandi chitarre tonanti e cori voluminosi che lasciano intravedere un raggio di luce in questa notte sull’orlo dell’Artico che è Alaska.
Si chiude così un album solido dal primo all’ultimo minuto, un disco puntuale nell’eliminare ogni superfluità compositiva e che vanta una produzione accorta e poco invadente, in cui tutta l’attenzione sembra ancora (per fortuna) focalizzata su quello che accade in sala prove. Forse Alaska non ci regalerà grandi sovvertimenti o svolte, il rovescio della medaglia del consolidare un sound così personale è proprio questo, ma costituisce un passo avanti nel processo di maturazione di un gruppo che sembra aver ancora molto da dire.
O da gridare, se preferite.