Avevamo lasciato i Turchi a litigare per Gezi Park. Per chi si fosse perso le ultime puntate, il governo, almeno per il momento, ha vinto. Le manifestazioni verdeoro di Rio de Janeiro (o più probabilmente la Confederations Cup) hanno fatto traslocare l’attenzione dei media dalle spiagge dell’Egeo a quella di Ipanema.
Poi l’Egitto ha fatto ritornare tutti sul Mediterraneo. Di Istanbul e delle sue proteste rimane solo la curiosità di sapere se la polizia turca è riuscita a fratturare almeno una clavicola ad ogni manifestante oppure se qualcuno è riuscito a scampare le manganellate.
Mentre tenevamo gli occhi incollati sul Brasile (no, non le proteste, ma i rigori di Italia – Uruguay), sullo stretto del Bosforo qualcosa capitava. Il Gay Pride. Anzi, l’Istanbul pride.
A dire il vero, ogni anno attivisti LGBT (che forse qualche consenso in più lo raccoglierebbero se non si trincerassero dietro a sigle da codice fiscale) si riuniscono nella capitale turca per chiedere più diritti. Ma questa volta l’affluenza è stata la più alta di sempre.
100.000 persone. Nulla di epocale per chi, come noi, è abituato a vederne riunite dieci volte tante per la Camusso. Però, in Turchia, dove cui un governo moderatamente islamico abbraccia una società piuttosto tradizionalista, 100.000 teste sono un numero considerevole.
Il dato interessante è la confluenza dei manifestanti di piazza Taksim nel corteo dell’Istanbul pride.
Se siete alla ricerca della vostra vera sessualità, non sarà però una vacanza in Turchia a schiarirvi le idee. Persi nell’Anatolia centrale non incontrerete orde di imam seminudi pronti ad accogliervi nella loro comunità vegano-omosessuale.
Nella patria di Ataturk gay, lesbiche, bisex, trans, q, y e z è meglio non si mostrino troppo in giro. I rapporti tra persone dello stesso sesso, a differenza di altri paesi a maggioranza islamica (ma la Turchia ha una storia un po’ più complessa del Qatar), non sono illegali. Però non azzardatevi a: sposarvi, far-finta-di-sposarvi (unioni civili e affini), adottare un bambino, chiedere una legge anti-discriminazione. Oh, cazzo…stavo leggendo i dati sull’Italia!
No, in Turchia, se siete gay, non potete neppure entrare nell’esercito.
Bisogna anche ricordarsi che, se Istanbul è una città cosmopolita e rivolta a occidente, appena voltate le spalle alla costa mediterranea rischiate di imbattervi in pastori per cui certe cose si possono fare solo con le pecore del proprio gregge.
100.000 persone al Gay Pride della capitale sono quindi un numero importante, ma irrilevante ai fini pratici. Se non fosse per la partecipazione dei manifestanti di piazza Taksim.
In un paese dove, a più di una settimana dal colorato raduno, dei gruppi religiosi hanno depositato un’istanza per richiedere l’eliminazione dai media nazionali delle immagini relative alla sfilata in quanto giudicate immorali, questo è un segnale. Potrebbe essere la saldatura tra le proteste per una maggior democratizzazione della vita civile e movimenti nati per richiedere un altro tipo di diritti.
In Egitto e in Tunisia, per non parlare di Libia e Siria, la primavera araba è riuscita a mettere in crisi dittature decennali, ma non ha registrato altrettanti progressi sul piano dei diritti per tutti. E probabilmente i tempi non erano maturi. Poter votare liberamente vale più delle unioni per gli omosessuali.
In Turchia, dove il governo è rigido, ma regolarmente eletto, forse c’è lo spazio per un matrimonio tra democrazia e diritti.