L’unico disco che fu in qualche modo rinnegato da Fabrizio De André è Storia di un impiegato, quel concept-album che a distanza di anni lui stesso trovò troppo politicamente schierato (“Quando è uscito Storia di un impiegato avrei voluto bruciarlo (..) ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi”). Eppure quel disco trasuda una poesia magnetica, e narra la storia disperata di un innamorato della vita che s’arma di bombe contro il Potere e poi resta solo per scontare i suoi anni in prigione: è la storia del singolo uomo in lotta, come quasi tutte le piccole storie di De André, dell’intima sfida e dell’appello a cambiare le cose che non vanno a questo mondo.
Se per una volta Faber ha parlato di bombe, resta comunque implicito il richiamo al potere rivoluzionario delle parole, un potere che è stato anche di Gesù Cristo, figura che torna nel vero disco sessantottino del cantautore genovese, La Buona Novella. I due pezzi conclusivi di Storia di un impiegato, Verranno a chiederti del nostro amore e Nella mia ora di libertà, raccontano tutta la lacerazione interiore del bombarolo sconfitto dall’arrogante potere, persino la donna amata lo abbandona alla sua lotta, vinta“dagli occhi per loro”, un loro sempre presente e inevitabile. Eppure – nonostante l’ammissione della sconfitta – il contestatore continua disordinatamente la sua protesta persino tra le mura del carcere rifiutando di prender parte all’ora di libertà concessa dai carcerieri. C’è un’edicola davanti al Parlamento di Roma che è la viva testimonianza del tradimento al bombarolo. Questa è la poesia dell’anima che riesce a preservarsi dall’orrore, come quella del blasfemo (personaggio immaginario tratto da Spoon River ne Non al denaro, non all’amore né al cielo) che grida “mi cercarono l’anima a forza di botte”, perché a che serve pestare il corpo quando è dentro che si anima il dissenso?
Questo aspetto della parola di Fabrizio ha sempre emozionato, e continua a farlo, perché la poesia non è solo il regno dell’immediatamente letto, ma anche quello in cui si coglie continuamente l’inaspettato e il nuovo nel riletto. “I poeti, che strane creature”, come Brecht, Elliot, Majakovskij, Garcia Lorca: nella continua furia delle parole riemergono continuamente immagini e frammenti che ci erano sfuggiti; così accade con Bob Dylan, Leonard Cohen, e gli chansonniers.
Forse la differenza vera tra De André e gli altri cantautori italiani è nel raccontare l’universale e contemporaneamente renderlo particolare coi dettagli: non troverete canzoni d’amore struggenti nel suo repertorio, ma gli spunti su quella cosa che è l’amore sono ovunque, dal capolavoro Amore che vai, amore che vieni a La ballata dell’amor perduto – che ci ricordano la caducità del tempo, e c’è amore persino dentro il Terzo Intermezzo o ne Il suonatore Jones.
E poi i rari casi in cui Fabrizio ha parlato di se stesso dentro i pezzi, come Giugno ’73, l’amante lasciato stavolta per una diversità delle anime, oppure Hotel Supramonte, che è anche un lamento per il padre nel testimoniare il rapimento di Faber e Dori Ghezzi. E proprio a Dori aveva dedicato Valzer per un amore, con quel retrogusto di attesa e rifiuto, tratto da un sonetto di Pierre de Ronsard. E c’è amore anche in Sally, amore per la conoscenza che porta ovunque, perché questa è la bellezza delle anime libere, che un giorno vanno a giocare con gli zingari nel bosco e l’altro montano un pesciolino d’oro sfidando l’ignoto e il pericolo (“Quando ero piccolo mi innamoravo di tutto”). Perciò, se vedi qualcuno che gioca con gli zingari per curiosità lasciagli libertà. Persino il drogato di De André è libero, come ne Il cantico dei drogati dove s’appella alla madre ma non sa come dirle che ha paura.
Non stupisce che la televisione non volesse avere niente a che fare con un cantautore così. È un mondo aperto di testimonianze, di piccole storie, è una scoperta della natura umana, debolezze e paura ma anche forze e ispirazioni. “Via del campo, c’è una puttana”; “a un dio fatti-il-culo non credere mai”. Amico Fragile è altrettanto forte e rabbiosa (punk!) quanto un’ammissione di fragilità: è tutto detto nel verso “ero molto più ubriaco di voi”.
In una delle rare interviste rilasciate in vita De André disse che preferiva leggere piuttosto che guardare, perché con la lettura si può immaginare, cosa che necessariamente non è possibile quando hai a che fare con fotografia o cinema: forse è interessante notare che nelle canzoni di De André c’è una forte libertà della nostra immaginazione. Farò un esempio mainstream perché mi farebbe piacere se mi capissero anche i meno avvezzi a Faber, e cioè La canzone di Marinella. È un pezzo chiaramente ricco di riferimenti e descrizioni, tuttavia siamo liberi di far fluttuare la nostra personale idea di cos’è questa canzone, dare un volto a Marinella, sovrapporre la nostra storia, nell’incredibile gioco dei detti e non detti, dei sottintesi, il principe busserà in eterno alla porta di Marinella perché “non la volle creder morta”: quel principe è ognuno di noi nel quotidiano rapporto con l’impossibile.