Nel 1994, sul set de Il verificatore, il film d’esordio del giovane regista napoletano Stefano Incerti, si presenta un ragazzo, un suo concittadino, che si offre volontario per fare l’assistente alla produzione, alla regia, per fare un po’ tutto quello che serve.
Quel ragazzo era Paolo Sorrentino, e grazie alla sua intraprendenza in quel contesto riuscì a conoscere il produttore di quella pellicola, Nicola Giuliano, che si accorse che, nonostante il giovane fosse negato per qualsiasi tipo di aiuto pratico e manuale, aveva idee cinematograficamente valide.
Dopo qualche anno Paolo presentò a quello che sarebbe diventato il suo produttore di fiducia il soggetto de L’uomo in più che, nel 2001, divenne il fulminante esordio di un regista che oggi, a pochi anni di distanza, risulta essere, a ragione, una delle menti più originali del nuovo cinema italiano.
Dopo il racconto dei destini parallelamente tragici dei due omonimi Tony Pisapia, il cantante e il calciatore, Sorrentino ha dato vita, nel 2004, al suo capolavoro criptico, Le conseguenze dell’amore, amara parabola del gelido e misterioso Titta Di Girolamo condannato a vivere in una stanza d’albergo una metodica esistenza che pare non possa essere scossa da nessun evento intorno a lui.
Due anni dopo gira una pellicola tanto devastante quanto anomala, L’amico di famiglia: immaginatevi un usuraio dall’aspetto a dir poco trasandato, figura buffa dai movimenti rapidi, convinto di essere un benefattore della società, cinico nei suoi vessatori aforismi che cadono ad arte nelle tragiche atmosfere concilianti, ammaliante come solo un commerciante partenopeo sa essere, per “miglior amico” un triste cowboy dell’agropontino con il sogno del Tennessee, per scenario le imponenti architetture del ventennio fascista che caratterizzano Latina e Sabaudia, per casa un appartamento infimo e buio con dentro una saggia matrona da accudire e lavare, e per sogno proibito una giovane donna che gli stravolga l’esistenza; immaginate tutto questo e comunque non riuscirete ad avvicinarvi alle sensazioni che un’opera del genere provoca nello spettatore durante e dopo la visione, dallo squallore alla pena, dalla tristezza al burlesco divertimento paradossale.
Nel 2008 è arrivato il riconoscimento internazionale con uno dei film più geniali della moderna cinematografia italiana: Il Divo – la spettacolare vita di Giulio Andreotti è stato insignito del Premio della Giuria al Festival di Cannes e il presidente Sean Penn ha definito il film un capolavoro pop centrando in pieno la capacità espressiva del regista napoletano.
Il senatore Andreotti viene raccontato in modo quasi intimo, il giudizio morale sulla persona e sull’uomo politico si può evincere ma non viene spiattellato o imposto ma quasi esorcizzato; gli elementi per farsi un’idea, per porsi domande su questa ambigua figura della Storia italiana vengono forniti ma il contorno è disarmante perché lì dove gli eventi e le situazioni evidenziano tragedie e misteri irrisolti la narrazione si fa stravagante grazie a riprese innovative e a scelte cinematograficamente illuminanti, dalla fotografia alla musica, dai dialoghi alle didascalie (da applausi l’introduzione che dopo il monologo di Andreotti sul mal di testa mostra le immagini di efferati omicidi accompagnate dalla musica dei Cassius).
L’egregia messa in scena è esaltata da uno straordinario Toni Servillo, attore feticcio del regista partenopeo.
Grazie a questo film Sorrentino si è fatto conoscere nel panorama internazionale e soprattutto da Sean Penn a cui ha proposto di interpretare This Must Be The Place, il suo ultimo lavoro su una rockstar che vive da pensionato lontano dalle scene da oltre 10 anni, e che ha portato l’attore a ricoprire uno dei ruoli più affascinanti della carriera costruendo una figura emblematica di uomo condizionato dal suo passato di eccessi e inseguito dai demoni dei sensi di colpa tra cui quello di aver troncato da adolescente il rapporto col padre.
Paolo Sorrentino è uno dei personaggi più atipici della cinematografia italiana: non si sforza per nulla di essere simpatico, è lontano anni luce dai registi contemporanei smaniosi di finire in televisione, è infastidito dai giri promozionali delle sue pellicole perché quasi non sa che dire visto che un’opera oramai conclusa e uscita in sala non gli appartiene più.
Non ama avviare la scrittura di un film da una storia, da una trama precisa; resta affascinato dalle sfaccettature degli uomini, e il tentativo di capirle, di comprendere i loro lati oscuri lo portano a far nascere un soggetto esclusivamente sul personaggio, partendo dalla curiosità suscitata da situazioni misteriose in cui questo può trovarsi, e solo in seguito la storia prende forma.
Terrorizzato e di conseguenza contrario ai film che fanno morale, Paolo Sorrentino è convinto che, nell’era massmediologica che viviamo, in cui tutto è mostrato dalla televisione, nel cinema bisogna partire dalla realtà ma per allontanarsene rivedendola con i propri occhi, anche perché la direzione che sta prendendo la settima arte pare dia maggiore importanza allo stile e non all’argomento in sé.
I santoni della critica contemporanea hanno fatto a gara a ricercare somiglianze con i maestri del passato, ad affibbiargli marchi di genere o appartenenze a scuole con stili predefiniti, vezzo incancellabile purtroppo: i puristi hanno tagliato corto definendolo “strano” con tutto quello che il termine possa voler significare, ma forse, in realtà, come pensa egli stesso, è sempre più evidente il fatto che gli addetti ai lavori risultino spaventati dal cambiamento, vogliosi di ipocriti racconti rassicuranti in una discesa a picco, alquanto conformista, del cinema degli ultimi anni.
In tutti e cinque i film di Paolo Sorrentino i protagonisti sono dei vinti, dal destino, dalle emozioni, quasi sempre in una picchiata che li porta dal potere, dalla fama, dalla ricchezza, dalle stelle alle stalle, legati dalla ricerca dei sentimenti perduti che in questa fase discendente compiono senza l’aiuto di nessuno, in ginocchio con le loro forze ormai esaurite: personaggi che, se si esclude parzialmente il calciatore de L’uomo in più e, perché no, la rockstar Cheyenne di This Must Be The Place, sono cinici e loschi, ma non per questo presentati per forza di cose come lupi cattivi, anche perché Sorrentino non impone un giudizio morale e moralista su di loro ma li umanizza, disegnando i loro tic e le loro manie, per non farci allontanare dalle singole storie così come solitamente succede quando si punta il dito contro il carnefice.
Merito che non può essergli negato è quello di aver centrato in pieno la scelta degli interpreti: la preferenza per gli attori teatrali è subito evidente con Andrea Renzi e Toni Servillo per il suo esordio, e se il primo riesce con bravura a cucirsi addosso la figura malinconica del calciatore finito, il secondo ammalia per la sua sublimità interpretativa che non cala d’intensità emozionale sia che rappresenti l’amara discesa agli inferi dello spavaldo cantante Tony Pisapia ne L’uomo in più, sia che si avvolga di mistero e di gelo nei panni dell’ambiguo Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell’amore, sia che si debba “trasformare” in un personaggio reale come Giulio Andreotti ne Il Divo, mostrandone le sfumature psicologiche e umorali oltre che le caratteristiche fisiche.
Se il camaleontismo di Servillo può risultare indispensabile al regista per la maggior parte delle sue pellicole, con L’amico di famiglia Paolo Sorrentino ha sfidato sorte, convenzioni e convinzioni generali scrivendo apposta per Giacomo Rizzo il ruolo di Geremia De Geremei: meglio non poteva essere ripagato, dato che l’attore napoletano, dalla pluridecennale carriera teatrale interrotta di tanto in tanto dalle commedie scollacciate di fine anni ’70, è eccezionale, riesce ad essere spaventoso e viscido ma senza allontanarsi dall’aspetto comico del carattere dello strozzino in questione, convinto di non essere per nulla una cattiva persona; e questa era la vera sfida del film, quella di essere al tempo stesso comico e drammatico, una commedia nera, un salto mortale che oscilla tra il malato e il leggero in maniera tanto sottile da creare scompenso allo spettatore e, come ha raccontato Sorrentino, anche a Giacomo Rizzo che durante la lavorazione più di una volta è sembrato disorientato dalla maschera che interpretava.
Nel film appena uscito nelle sale invece è stata la sua caparbietà unita alla stima che l’attore in questione aveva dimostrato per il regista a far si che uno dei migliori interpreti in assoluto del cinema moderno, Sean Penn, facesse da protagonista, impressionando prima di tutto lo stesso Sorrentino per i tratti fisici e psicologici pensati per dar vita al personaggio di Cheyenne, e probabilmente è grazie a tale bravura che il regista ha avuto la possibilità di rendere This Must Be The Place un sublime racconto fatto più di immagini che di parole.
L’anomalia rappresentata da Paolo Sorrentino nel panorama cinematografico contemporaneo non è riuscita a catturare la maggior parte di quella che io definisco la “generazione pretty woman”, i trentenni legati indissolubilmente ad un solo tipo di messa in scena, per lo più americana, meglio se sentimentale, con ben stretto il cordone ombelicale che non permette loro di arrischiarsi verso nuove forme artistiche e a confrontarsi con esse, afflitta da una sindrome da omologazione di cinema convenzionale.
In tale contesto il regista napoletano non fa nulla per strizzare l’occhio al famigerato pubblico medio; in realtà la sua opera pare non voler compiacere proprio nessuno, e meno male dato che, probabilmente, la sua bravura, la sua originalità sono dovute anche a questo, al suo fregarsene di essere considerato “strano”.