La strada che dalla metro porta all’Alcatraz è tutta una corsa ad ostacoli tra ombrelli e pozzanghere colme di foglie con i bordi consumati e dissolti nel nero dell’acqua sporca. Un’immagine che ad istinto evoca la bella e decadente cover dell’ultimo lavoro in studio degli Editors, quel “The weight of your love” accolto tiepidamente da una critica poco entusiasta della virata alternative a stelle e strisce che la band di Birmingham, accantonati synth e tastiere, ha voluto imprimere al nuovo disco.
Ma il sold out di stasera, annunciato ormai da tempo, sembra smentire queste perplessità.
L’Alcatraz è già pieno quando sul palco salgono i Balthazar, band belga opener della serata, di cui si è spesso sentito parlare come la next big thing del panorama musicale indipendente, ma la lentezza con cui trascorrono i 40 minuti della loro esibizione ci fa pensare che forse si è un po’ esagerato.
Dopo una manciata di brani che richiamano un po’ i Beirut, un po’ gli Arcade Fire, con la voce del cantante ad evocare il croonerismo à la Scott Walker, eseguiti davanti ad una platea che riesce ad entusiasmarsi solo per il singolo Do Not Claim Them Anymore, ecco finalmente gli Editors salire sul palco.
Quando si accendono le luci Tom Smith è una sagoma scura posizionata al centro della scena con le mani dritte verso l’alto che si muovono sulle note di Sugar, seconda traccia del nuovo album accolta calorosamente da un pubblico che accompagna la sua voce fin da subito e per tutta la scaletta che sarà equamente divisa tra canzoni del vecchio e nuovo repertorio.
Tra i brani della nuova produzione, Sugar è quello che, per le atmosfere cupe e il cantato sofferto, maggiormente si avvicina agli albori della band e sembra posta a inizio di scaletta proprio con l’intenzione di riprendere le fila di un discorso mai interrotto, seppur declinato attraverso forme ed espressioni nuove, come a promemoria di un passato che non se n’è mai andato del tutto.
E proprio per ricordare chi sono gli Editors e da dove vengono, ecco susseguirsi uno dopo l’altro i brani del vecchio repertorio secondo un preciso percorso progressivo che parte dal primo “The Back Room” con Someone Says,passando per la bellissima Smokers Outside the Hospital Doors
con la sua apertura monumentale e l’ispiratissima Bones tratte da quell’ “An End As A Start” che li fece entrare a pieno titolo nella tradizione alta di una certa darkwave, per finire con Eat Raw Meat = Blood Drool tratta dall’ottimo “In This Light And On This Evening”.
La successiva Two hearted spider, nona traccia del nuovo lavoro, arriva come la naturale evoluzione del percorso musicale appena riassunto, costruita com’è intorno a quel cuore nero che fin dall’inizio ci ha fatto innamorare di questa band e che muove qualcosa dentro per l’intensità del cantato e la tristezza prima trattenuta in quel <I saw our shadows dance before the dawn>, poi finalmente esplosa nella voce di Tom in un finale che sa di liberazione.
I singoli “Formaldehyde” e “A Ton of Love”, piazzati sapientemente al centro della setlist a distendere un po’ l’atmosfera, trasformano l’Alcatraz in un’unica grande voce, mentre centinaia di mani si levano verso l’alto quasi a voler ricalcare i movimenti irrequieti di un Tom Smith particolarmente in vena e divertito mentre si dimena dall’alto del suo pianoforte.
Poi, proprio quando meno te l’aspetti, arriva Like Treasure come una ferita a strapiombo sul cuore. La voce baritonale di Smith incastrata tra lo strazio e l’incanto, le brezze sintetiche che disegnano un tempo sospeso, quasi immobile, e il respiro che affonda in gola e quasi si spezza, fanno pensare che, forse, se non fa male non è Bellezza.
Dopo la tiratissima An End Has A Start, seguita da Bullets e da una solenne In This Light and On This Evening, si riprende fiato con la dolcissima The phone book vestita di sola chitarra e voce, con gli applausi del pubblico che partono prima ancora che sia finita.
E’ un continuo avvicendarsi di stop and go emotivi e questa volta ad innescare la fiamma sono Munich e The Racing Rats che gettano l’Alcatraz in un sussulto poi riassorbito dall’intensa ballata Honesty. <Out of my window it echoes my heart/ I’ve been checking for change since the start/ Collide into me, I could do with a fight/ Collide into me, cause it feels right>. Si congedano così, prima dell’esplosivo bis conclusivo.
La band di Birmingham ritorna sul palco pronta a sferrare i tre colpi finali. La drammatica voce di Smith, forse mai stata così vicina a quella di Ian Curtis, si staglia sul tappeto di tastiere che introducono una stupenda versione di Bricks and Mortar. Poi le luci si abbassano e parte Nothing, che ammutolisce all’istante la sala, persa nella celebrazione ad occhi chiusi di quel tormento amoroso che basta un pianoforte ed una voce a raccontare, in un modo che sa come spezzare il respiro, perché si faccia pianto e poi apnea.
L’ultima sferzata a questa giostra emotiva la dà una strabordante Papillon lasciata per il gran finale come un enorme fuoco d’artificio esploso sul più bello.
E mentre ci incamminiamo verso l’autunno che attende lì fuori, dentro qualcosa perde confini, cede, sbiadisce.
Come per un peso d’amore.