l destino del dibattito sul reddito di cittadinanza in Italia sembra segnato in partenza: da un lato la propaganda retorica del blog pentastellato, dall’altro la totale indifferenza dei partiti politici. Nel mezzo, il nulla.
Sembra impossibile poter portare avanti una discussione seria e costruttiva su come colmare una lacuna che, almeno nel vecchio continente, condividiamo soltanto con la Grecia: in Italia, ad oggi, non esiste una misura che garantisca una minima certezza economica a chi non ha lavoro. Si è sempre preferito prorogare misure come la Cassa Integrazione, un palliativo che non porta ad alcun risultato se non a: a) preservare la stabilità sociale b) creare persone dipendenti in toto dallo Stato (e, soprattutto, dai politici), in perenne attesa per il rinnovo del beneficio c) incentivare il lavoro nero “per arrotondare”, danneggiando così chi lavora regolarmente.
Mettiamolo subito in chiaro: il reddito di cittadinanza non è la soluzione al problema, come vedremo in seguito, ma addirittura esaspera quella che è la principale eredità culturale lasciataci dagli anni ’80, insieme a Heather Parisi: l’idea di disuguaglianza come fatto endemico, e quindi accettabile, all’interno della società capitalistica. È il risultato di un capolavoro politico, quello compiuto da personaggi come Margaret Thatcher e Ronald Reagan, che Bauman rievoca in un suo breve saggio: spostare il dibattito dalla comunità all’individuo, trasformare la società da necessità dell’uomo a sua prigione e la redistribuzione da operazione necessaria per il corretto svolgersi della democrazia ad ingiustizia nei confronti di chi ha guadagnato di più. Sono le scorie di quel periodo ad impedire, trent’anni dopo, lo svilupparsi di una modalità di affrontare povertà e disagio che vada oltre la beneficienza e il volontariato, che insomma non sia lasciata in balia della scelta del singolo. La paura delle “welfare mothers”, le mantenute dallo Stato, demonizzate e inventate da Reagan (per il divertimento di Neil Young), colpisce ancora.
Quale la soluzione? L’egoaltruismo, a sentire Philippe Kourilsky, immunologo francese, ossia il passaggio dalla generosità ad un “altruismo scientifico e asettico”, che integri la massimizzazione del rapporto ricavo/costo e la libertà nel gotha del liberalismo contemporaneo. È ora di dire basta alla generosità, alla sua imprevedibilità e discrezionalità, all’ipocrisia della beneficienza per scaricare le tasse, al suo pietismo di derivazione cattolica, aggiungerei io. “Si parla spesso della generosità di Bill Gates che ha finanziato campagne di vaccinazione. Ma se Bill Gates, come François Pinault, avesse investito in opere di artisti contemporanei, cosa sarebbe successo ai bambini senza le vaccinazioni?” si chiede Kourilsky, intervistato da Repubblica. L’idea di generosità è stata utilizzata soltanto per giustificare i tagli indiscriminati al welfare, per alleviare il senso di colpa tutto occidentale per il terzo mondo, per preservare, insomma, un sistema iniquo che sembra sempre ad un passo dal tracollo. Si è assistito, appunto, ad una liberalizzazione dell’idea di altruismo, ad uno spostamento dal piano del dovere etico a quello della scelta individuale.
Tornando al dibattito sul reddito di cittadinanza, è proprio il percorso ideologico di cui sopra ad averci condotto allo stallo attuale. Una situazione paradossale in cui, se da un lato misure di sostegno alle fasce più deboli ci sembrano fondamentali, dall’altro sono proprio gli appartenenti alla classe medio-bassa ad essere i più spaventati ed indignati dal concedere nuovi sussidi (a sé stessi!). È il frutto di almeno vent’anni di propaganda unidirezionale contro chi “vive alle spalle dello Stato”, danneggiando i più ricchi. Senso di colpa e invidia penis freudiani derivati dal mass-media McLuhaniano per antonomasia, la televisione: un mix letale da cui è difficile sfuggire.
Nonostante in molti ne sostengano la completa scissione, quest’incertezza che si percepisce all’interno della società civile si riflette immediatamente nello scenario politico, dove, con l’eccezione del M5S, nessuna forza politica sembra voler far propria la lotta per una qualche forma di reddito di base. Insomma, in Italia non sembrano sussistere, al momento, i presupposti per un dibattito serio, “numerico” e non retorico su povertà e disuguaglianza ma, soprattutto, a mancare sono le soluzioni.
Si è parlato molto di reddito di cittadinanza, proposto dal M5S alle camere con scarsi consensi: si tratta di una forma di sostegno universalistica, garantita a chiunque si trovi senza un impiego, al di là della sua posizione nella “piramide sociale”. In questo modo, come ricordano Roberto Perotti e Tito Boeri su lavoce.info, qualunque disoccupato riceve la medesima somma mensile, che si tratti di uno svogliato ereditiere o dell’operaio licenziato perchè la “ripresa a portata di mano” di cui parla Letta non si vede ancora. Sempre citando Boeri-Perotti, il piccolo pro associato all’universalità di tale misura risiede nel fatto che, in quanto garantita a priori, non distorce il mercato del lavoro, a differenza della Cassa Integrazione, la quale porta sia ad una diminuzione dell’incentivo a trovare lavoro sia ad abusi da parte delle aziende, che tendono a richiederla al minimo segnale di pericolo. Un esempio: “Supponiamo che lo Stato garantisca un reddito di 1000 euro al mese a chi non ha lavoro. Nessuno lavorerà per meno di 1000 euro. Ma difficilmente qualcuno accetterà un lavoro anche per 1200 euro: il guadagno netto sarebbe solo di 200 euro, perchè dovrebbe rinunciare al sussidio di disoccupazione di 1000 euro?”. Un piccolo pro, dicevamo, se confrontato con i due grandi problemi etici ed economici che ne derivano: da un lato, l’impossibilità di giustificare politicamente l’assegnazione un aiuto del genere anche a chi non ne ha bisogno, dall’altro l’effettiva insostenibilità economica per lo Stato, soprattutto con un tasso di disoccupazione al 12.5%.
Non esiste una soluzione, quindi? La risposta è che un’alternativa, meno facile da cavalcare politicamente, ma di certo più realistica, esiste eccome: il reddito minimo garantito. Basterà aggiungere all’universalità del reddito di cittadinanza un secondo criterio, la selettività relativa a quanto effettivamente guadagnato, per fare sì che l’ipotesi di un sostegno economico a chi lo necessita discenda dall’iperuranio al più pragmatico terreno del dibattito politico. D’altronde è questa la soluzione che il resto d’Europa, seppur con modalità profondamente diverse, ha scelto di adottare per affrontare la congiuntura economica.
Quello che emerge dal nostro discorso è che la crisi che stiamo attraversando, prima che finanziaria, sia anzitutto valoriale e politica (come affermano anche il premio Nobel Joseph Stiglitz ed i suoi colleghi). Se della crisi delle ideologie abbiamo già parlato, è opportuno ricordare quali siano le responsabilità della nostra classe dirigente. In primis, la più nota, ossia la deregolamentazione del mondo finanziario. Broker, fondi pensione, hedge funds ma, soprattutto, banche hanno potuto agire in maniera indiscriminata, spesso con il tacito consenso dei governi, vendendo a ignari (ma avidi, va detto) investitori prodotti la cui rischiosità era ignota persino ai creatori stessi. La mia tesi è che la finanza non abbia preso il controllo del mondo all’insaputa della politica, ma che, al contrario, essa sia stata la soluzione elaborata dalla politica stessa all’emergere della crisi del modello capitalistico-fordista negli anni ’70.
Il secondo grande errore è stato il cedere alle lobby, all’eterno fascino della minoranza. La classe politica ha abbandonato la (pur complicata) missione di dover servire il 100% della popolazione, scegliendo la via più facile: ascoltare chi aveva la voce più forte e, soprattutto, più seducente, illudendosi che fossero quelli gli elettori a cui fare riferimento.
Costruire un dibattito che sia profondo e autentico senza basi adeguate è difficile, se non impossibile. Sarà banale, ma la politica, e con essa tutto ciò che le sottende, deve ritrovare il suo naturale primato sull’economia. Solo quando saranno chiare le priorità, gli obiettivi ma, soprattutto, le identità delle parti in gioco, riusciremo ad affrontare seriamente i problemi che attanagliano la società, invece di rimandarli all’infinito. Non accontentiamoci, insomma, dei soliti palliativi.
P.S. In Italia una misura simile al reddito minimo è stata adottata a Trento. Qui i risultati, per chi fosse interessato.