Si sono spente le luci della ribalta sul Festival di Sanremo e su internet si scatena la solita guerra ai vincitori, normale evoluzione di quella al Festival stesso. Il capro espiatorio è stavolta Marco Mengoni, ennesimo vincitore proveniente da un talent show e su cui vengono scagliati i fulmini degli Zeus/indie di turno.
Attaccare e criticare è facile e si sa, è sport nazionale. Sarebbe interessante, per una volta, provare invece a capire il perché di questo successo. Che non è solo quello di Mengoni ma anche di Chiara e Annalisa e dei Modà che da un talent non escono. E che, guardando alle classifiche di questi anni, è anche quello dei vari Ferro, Pausini, Antonacci, D’Alessio etc.
Tralasciando le pur sacrosante polemiche sull’uso disinvolto del televoto o degli interventi a gamba tesa di una giuria di dubbia qualità, esiste, a mio parere, un problema di enorme scollamento tra musicisti (o artisti che dir si voglia) “indie” e pubblico. Un pubblico che a differenza degli anni ’80 e dei primi ’90 ha oggi, attraverso internet, il mezzo per accedere a qualsiasi contenuto musicale; non più dunque etero diretto dal mezzo televisivo, mezzo per sua natura certamente non democratico, ma libero di scegliere, consapevolmente, altro dalla musica che passa qui sopra, sulle riviste specializzate o su qualsiasi blog.
Perché? Perché in questi ultimi anni si è consumato uno strappo profondo nel rapporto tra artista e pubblico. Dagli anni ’60 e ancora nelle due decadi successive, (quasi) ogni musicista, cantautore o semplice interprete ha scritto suonato e cantato, in un rapporto di grande scambio, per il pubblico. Da Claudio Villa a Domenico Modugno, da Dalla a Morandi, da De Gregori a De André, dalla Pfm agli Area fino ai cantanti pop degli anni ‘80 e ’90, i successi più commerciali come quelli più elitari (penso ad esempio a Creuza de Ma) sono sempre stati anche grandi opere popolari di là dalle copie vendute. In Italia come all’estero dove un artista del calibro di Dylan, ad esempio, anche quando ha schiaffeggiato con coraggio il suo pubblico ha sempre tenuto la barra dritta sulla sua idea di musica “popolare americana”, da Woody Guthrie ad Hank Williams, menestrelli tra la gente e non al di sopra di questa.
Ha detto una volta Renato Guttuso: “Avanguardia è fare una cosa e lasciarla lì. L’arte è continuità e ricerca.” Ed è quello che sempre più è successo negli ultimi vent’anni. La maggior parte dei musicisti “indie” si è sentita espressione di una classe alta, d’avanguardia, portatrice di verità assolute non accorgendosi di chiudersi, così, nel ghetto di una musica auto riferita e sterile. Quanta differenza con chi quell’avanguardia l’ha davvero fatta (due nomi a caso: Miles Davis e Peter Gabriel) aprendosi e non chiudendosi, coinvolgendo e non escludendo il pubblico. La stessa chiusura ha poi portato ad un impoverimento delle scelte tanto musicali quanto nella composizione dei testi, entrambe spesso spinte, oltretutto, verso soluzioni pretestuose e sterili. Va, inoltre, sottolineato che la “semplificazione” dei linguaggi ha in qualche modo rovinato gli ambiti artistici, tutti. Sia chiaro nessuno sta dicendo che essere musicisti significhi essere musicisti prog o free jazz. Significa operare, sì, una scelta ma sulle ampie possibilità che si hanno, altrimenti non di scelta si tratta ma di naturale conseguenza dei propri limiti tecnici ed espressivi.
Il sempre minor peso dato alle capacità musicali e canore ha dato spazio ad un esercito di cantautori/strimpellatori interessati a scrivere solo per sé stessi.
Quest’ultima considerazione ha riflessi pesantissimi sui talent che oggi critichiamo. I talent show da Amici ad X Factor costruiscono interpreti, nulla più. E la storia musicale di questo paese è stata fatta anche da straordinari interpreti. Ma un interprete è nulla senza autori validi. Il problema centrale è proprio questo. L’abbassamento delle qualità per cantare che si è avuto nel corso degli anni ha portato chiunque scriva una canzone a pensare di poterla (doverla) cantare da solo con risultati spesso imbarazzanti, con la conseguenza di avere cantautori mediocri e bravi interpreti a spasso.
Parole senza voci e voci senza parole.
Certo, i talent hanno il demerito di insegnare poco o nulla e di mantenersi su livelli di pop da classifica usa e getta. Ma allora il problema è di chi muove le fila e non di chi in quelle fila cerca il solo spazio concessogli. La verità, triste, è che oggi cantanti del calibro di Mina o di Mia Martini sarebbero costrette a partecipare ai talent e per loro non ci sarebbe uno straccio di autore (fatte le dovute e sempre più rare eccezioni) capace di scrivere quegli autentici capolavori della musica leggera che le hanno consacrate come regine assolute. E’ vero d’altra parte che anche gli interpreti fanno fatica a ritagliarsi spazi di ricerca ma c’è davvero oggi la possibilità di questi spazi? E’ bastato ascoltare Mengoni interpretare “Ciao amore, ciao” di Tenco la serata di venerdì per capire che in un contesto diverso il suo talento vocale ed interpretativo potrebbe crescere. Ma ancora una volta non dimentichiamo quali sono oggi le regole della discografia mondiale (fuori dai confini italiani non c’è grande differenza, al massimo si hanno lavori di maggiore qualità tecnica grazie a studi di registrazione e tecnici migliori). Il pubblico dunque, per quanto indubbiamente quello di Sanremo sia più televisivo, non può non percepire lo scarto di cui sopra e, in maniera per certi aspetti comprensibile, scegliere qualcosa che senta più vicino alla propria sensibilità perché più legato alla melodia, ad un canto “classico”, a temi che gli sono più congeniali. O anche perché riconosce in Mengoni, come in altri una vicinanza che altrove è invece assente. In una parola, i segni di una maggiore umiltà ed onestà.
Mai come quest’anno il festival ha offerto un ventaglio di proposte molto ampio. E va dato merito a Fazio di aver portato su RaiUno, all’attenzione di milioni di persone, artisti, questi sì, di straordinario valore come Antony Hegarty, Stefano Bollani e Caetano Veloso. E’ naturale che il grande pubblico scelga sempre musiche più “leggere” ma chi vorrà portare avanti discorsi musicali diversi dovrà porsi una buona volta il problema di confrontarsi con quel pubblico e non di lanciare inutili strali che nascondono solo la rabbia di appartenere ad una dorata nicchia.