Affrontare il problema delle enormi disuguaglianze in un momento storico difficile come questo (si parla di crisi in maniera piuttosto generalizzata ormai) è arduo, tuttavia analisi sempre più numerose tentano di mettere in chiaro una volta per tutte come stia crescendo il divario tra ricchi e poveri nell’indifferenza generale, e come questo trend sia destinato a perpetuarsi se non si cercano le cure. E’ il paradosso del frigorifero, riporta Linkiesta citando un lungo reportage de L’Economist: sia il ricco che il povero oggi hanno un frigorifero, ognuno lo paga secondo le sue possibilità, ma tutti ne hanno uno. Il divario quindi non si gioca più sul possesso di alcuni oggetti, ma sulla distanza di prezzo di questi oggetti, e sui beni di lusso ovviamente. Per fare un altro esempio, lo smartphone non è più un bene di lusso come all’inizio della sua comparsa, riesco ad immaginare famiglie di ragazzine che si indebitano per procurare uno smartphone alle proprie figlie (e non le immagino soltanto, queste famiglie): lo smartphone è diventato un vero e proprio oggetto interclassista. Secondo questo paradosso (di frigoriferi e smartphone) tuttavia pare che l’animo di rivolta storica che ci ha toccato nell’Ottocento sia sopito, perché non ci si rende conto di divari e distanze. La figlia del ricco borghese e la figlia della ragazza madre che lavora in pizzeria hanno entrambe lo smartphone, il che potrebbe essere un sinonimo di uguaglianze che si stanno sfaldando nel tempo, eppure le distanze continuano a crescere sotterranee. Come siamo arrivati così impreparati a cogliere la sfida del Ventunesimo secolo?
Anzitutto con molto laissez-faire: e non parlo di teorie e modelli economici, mi riferisco anzitutto ad un atteggiamento mentale e morale, e ad una certa pigrizia nella volontà di cambiare la realtà. Abbiamo creduto possibile che lasciare al ‘sistema’ la sua violenta anarchia avrebbe creato un modello di società perfetta, come se l’uomo non fosse creativo e imperfetto al suo interno, come se tutto si regolasse meravigliosamente per bene, e i poveri da soli avrebbero vinto la sfida dei tempi che cambiano. Nella dura realtà li abbiamo lasciati da soli, emarginati, offesi, quasi traditi. Ci siamo anche coperti di dure giustificazioni per farlo, come il cavallo di battaglia della meritocrazia detta tanto per, della volontà che tutto può fare. Ma esiste un insano problema nelle griglie di partenza, ed è quello su cui si dovrebbe lavorare in realtà: far sì che in quella fase ci sia la vera uguaglianza, che quella spinta propulsiva per il ricco (o il figlio del ricco) possa essere anche un diritto per chi non riesce a permettersela. La paura dell’intervento dello stato per correggere questi difetti provocati dall’indifferenza comune, appare allora furiosamente feroce. Non si tratta di togliere privilegi a chi li ha, credo che le scelte e strategie punitive possano somigliare più ad una vendetta o ad un sentimento di rivalsa storici (fondamentalmente punire potrebbe voler dire semplicemente sostituire una generazione con un’altra, cosa che non risolve nulla al fondo, così come dimostra la rivoluzione marxista russa: se metti in alto una classe per un’altra ci sarà sempre una classe ai margini). Si tratta di assicurare dei diritti base per l’umanità.
Sono interessanti, a questo proposito, alcune previsioni di Thomas Piketty sul declino del ceto medio, riprese anche in recenti analisi di Ilvo Diamanti su Repubblica: è una questione di percezione, ci si sente più poveri di ieri. Perchè l’inuguaglianza conta, è il titolo di un editoriale di Paul Krugman sul NY Times: e in effetti conta.