A prima vista Disconnect presenta un titolo quanto mai ironico, dal momento che tutti i personaggi che lo popolano sono perennemente connessi grazie a portatili, tablet e telefoni cellulari.
Abbiamo un diciottenne che per vivere si vende nelle chat-room erotiche, due bulletti che creano un profilo falso per prendersi gioco del classico outsider, una donna in crisi col marito che trova conforto in un gruppo di sostegno online. Persino le varie vicende sono “connesse” fra loro, la disconnessione cui si accenna è casomai riferita alla cosiddetta vita reale, all’incapacità di avere una comunicazione che possa definirsi tale.
Anche le parole che compongono le conversazioni in chat appaiono sullo schermo (il grande schermo, in questo caso) come se fossero distanti, come se non venissero realmente digitate, realmente dette.
Il tema che viene adottato come pretesto narrativo, le insidie che può nascondere la rete, non è sicuramente fra i più nuovi ed originali. Oltre a questo il film mostra come la realtà si discosti dall’apparenza, sia nel caso del bullo Jason Dixon, che probabilmente vorrebbe solo attirare le attenzioni di un padre glaciale, che in quello della giornalista Nina Dunham, forse non così caritatevole come potrebbe sembrare – probabilmente, la vicenda che la coinvolge è la più interessante fra quelle proposte -.
La regia è equilibrata, forse leggermente impersonale, ed alterna sapientemente macchina fissa e macchina a mano, così come ci si aspetta da un documentarista. Il ritmo è sostenuto ed alle spalle vi è una sceneggiatura che non lascia spazio a cali di alcun tipo. Unica nota stonata, la lunga, stucchevole sequenza in slow motion che rimanda esplicitamente ad un certo cinema di Von Trier.
Insomma il film di Henry-Alex Rubin non intende demonizzare la tecnologia, la solitudine e l’alienazione esistono da sempre. Disconnect può ricordarci, al limite, quanto sia rapido rifugiarsi nel mondo virtuale, e quanto questo possa essere considerato null’altro che uno specchio della vita reale.