Negli ultimi mesi la comunità web, o almeno la sua minoranza più consapevole, sembra aver trovato un nuovo nemico da combattere. Amazon? A quella si dedica già fin troppo bene Franzen. Apple? Già parecchi anni fa Morozov ne aveva smascherato la filosofia settaria e messianica. Allora saranno Facebook, Twitter, i social network, su cui tutti sembrano voler pontificare sempre e comunque? Sbagliato. A sorpresa, il bersaglio in questione è un apparentemente innocuo strumento di streaming musicale: Spotify.
Ebbene sì, le accuse non riguardano i “classici” del genere: stavolta non si tratta nè di libertà di espressione nè di privacy, un’ossessione tanto violenta quanto volubile che attanaglia la generazione X e le precedenti, ulteriormente scandalizzate dalla totale indifferenza dei nativi digitali. La rete, in questo caso, è coinvolta soltanto di riflesso, in quanto medium. È lei, infatti, che permette a Spotify di attentare alla sopravvivenza della musica e, soprattutto, dei musicisti.
Credit: James Day
Accuse pesanti, soprattutto considerando chi le ha lanciate: avanguardisti del calibro di Thom Yorke e David Byrne, non nonstalgici hipster come, che so, “Marcus Mumford & i suoi fratelli”. Il cantante dei Radiohead ha iniziato, spalleggiato dal suo storico produttore Nigel Gondrich, un’intensa campagna a base di tweet ed interviste per denunciare le politiche di Spotify, che, a suo dire, penalizzano gli artisti più giovani (e indipendenti) in favore di quelli già affermati (e affiliati alle major discografiche). Secondo Yorke questa è “l’ultima, disperata scoreggia di un cadavere“. Pur senza una metafora così à la Palanhiuk, l’ex cantante dei Talking Heads si pone sulla stessa linea di pensiero, arrivando ad affermare di essere preoccupato che servizi come Spotify e, in generale, il web possano “prosciugare la creatività dal mondo”. Non una cosa da poco, insomma.
Il galateo prescriverebbe di non parlare mai di sè stessi, ma è dai tempi delle camicie leopardate di Keith Richards o, più indietro, dei look di Little Richard che bon ton e rock’n’roll hanno preso strade completamente diverse. Questo per dire che è del tutto comprensibile che qualcuno possa etichettare le parole amare e allarmistiche riportate qui sopra come la classica lamentela dell’artista di mezz’età, il quale, superato l’apice della carriera, tenta di mantenere il suo tenore di vita attuale senza doversi esibire alle feste paesane. Artista che sarà inevitabilmente amareggiato nei confronti chi scarica illegalmente le sue canzoni, colpevole di rubare quel denaro che spetta di diritto a chi ha trivellato selvaggiamente, e prosciugato precocemente, il pozzo di creatività che è (era) il suo cervello. Artista che accoglierà quindi con giubilo la telefonata della casa discografica, felice di comunicargli come siano riusciti, in un colpo solo, a racimolare qualche soldo dalla concessione dei diritti (niente pubblicità sull’incontinenza, per una volta) e a debellare quei pirati che avevano acutizzato la sua dipendenza da ansiolitici e sonniferi. Byrne e Yorke, ci permettiamo di sintetizzare, ci anticipano il finale di questa “noiosa storia di un noioso artista”, il quale, dopo pochi mesi e centinaia di migliaia di visualizzazioni, si troverà a giustificarsi con il tappeziere – gran bel lavoro che ha fatto con il divano – per l’assegno che la banca ha rifiutato – tutto un errore, si figuri – di liquidargli.
Quello che i due cantanti fanno non è difendere l’attuale music business, come qualcuno ha insinuato, ma l’esatto opposto. Il loro è un tentativo di farci comprendere come l’avvenire roseo&ineluttabile che la voce della pubblicità tra le canzoni ci annuncia potrebbe non essere così roseo&ineluttabile e, soprattutto, che a doppiare quella voce potrebbero essere gli stessi personaggi che ci hanno portato a questo punto di non ritorno.
Ma partiamo dai dati, e facciamolo da quelli che Byrne riporta nel suo articolo sul Guardian. I Daft Punk avrebbero ricavato solamente 26,000$ dai 104,760,000 ascolti singoli generati su Spotify da Get Lucky, tormentone dell’estate 1978, ops, 2013. Facendo due conti, fanno 0,003$ nelle tasche della band ad ogni ascolto: una cifra che va poi divisa tra i musicisti. Non un gran problema per il duo di robot, ma non credo che la prenderebbero allo stesso modo se suonassero negli Arcade Fire. Queste cifre, a dir poco ridicole (non secondo alcuni, se confrontate con la radio), ci portano dritti ad una domanda: perchè un qualsiasi cantante o band dovrebbe aderire a Spotify, se il guadagno è questo? Purtroppo, la risposta non è così semplice.
Il problema è che abbiamo a disposizione pochissime informazioni su quanto gli artisti ricevano per ogni ascolto in streaming, dato che i rapporti tra Spotify e le case di produzione sono regolati da una miriade di contratti individuali pieni di clausole e codicilli. Se da un lato i dati forniti da Spotify sono pochi e difficilmente comprensibili, dall’altro le variabili da considerare sono innumerevoli. In primis, la somma pagata a chi detiene i diritti delle canzoni oscilla tra i 5 e i 15 millesimi (sì, MILLESIMI) di $ per ascolto, in base alla tipologia dell’utente (premium o ad-supported). Oltre a questo, bisogna guardare a quanto traffico la canzone o l’album abbia generato relativamente al totale del traffico mensile. Una volta saputo questo, dovremo calcolare quanta parte del 70% delle entrate totali che Spotify paga in royalties spetterà al brano. Secondo la mentalità dell’azienda, infatti, gli artisti dovrebbero pubblicizzare non più il loro album, bensì il servizio streaming che lo ospita, dato che, ad un aumento degli ascolti totali, corrisponderebbe un parallelo aumento negli introiti individuali.
Eccola, è questa percentuale la principale arma di difesa dell’azienda alle accuse dei suoi detrattori: “nei 5 anni di vita di Spotify abbiamo pagato 200 milioni di dollari in royalties”, che altrimenti sarebbero andati perduti nei meandri della pirateria online. Chapeau! Evviva Spotify, che ha aiutato l’industria musicale nel momento forse peggiore della sua breve ma intensa (come per ogni storia rock’n’roll che si rispetti) vita. (QUI una dettagliata infografica su quanto può guadagnare online un artista).
Ma è proprio quello che a Spotify vedono come un indiscutibile merito ad essere il punto più contestabile e detestabile dell’intera operazione. La parola chiave, ancora una volta, è redistribuzione. Come vengono divisi gli introiti che Spotify versa a i detentori del copyright? Ricordiamoci di quanto detto sopra: la cifra pagata dipende dal traffico RELATIVO generato dall’album rispetto al totale degli ascolti. La conseguenza è semplice: in questo sistema a vincere è chi ha un ampio catalogo, ossia, in parole povere, chi riesce ad avere la fetta più grande degli ascolti totali. Per fare un esempio, i 33 album in studio di Bob Dylan, dischi risalenti anche a 50 anni fa, che hanno già goduto dell’epoca d’oro del vinile e del cd, genereranno molti più ricavi dei 2, per quanto di successo, che costituiscono la discografia di James Blake. Indovinate un po’ in che mani sono la maggior parte dei cataloghi? Avete indovinato: le grandi major discografiche. È questa la contraddizione di cui parla Nigel Gondrich: “un pezzo vecchio di 40 anni, registrato da un artista morto, fa guadagnare la stessa fetta di torta di un nuovo brano scritto da un nuovo artista. Le grandi labels hanno fatto accordi segreti con Spotify e altri in cambio di royalties favorevoli. Nonostante questo, Spotify ha bisogno di nuovi artisti per garantire nuovi abbonati e per porre le basi del ‘nuovo panorama‘”. È facile cogliere il fondamentale paradosso su cui si regge Spotify, il cui aiuto dato alla musica, più che quello innocente del boyscout all’anziana che deve attraversare la strada, ricorda quello dell'”amico di famiglia” raccontato da Sorrentino qualche anno fa. “Sei un artista emergente? Se vuoi farti conoscere non puoi non essere su Spotify, ma non aspettarti che oltre ad ospitarti ti diamo anche dei soldi”.
Sono le case discografiche a farla da padrone, anche nel mondo del digitale. È con loro che nella maggior parte dei casi Spotify stipula accordi, non con l’artista. Questo accade poichè la maggior parte dei contratti consentono alle major di concedere il loro catalogo a qualsiasi terza parte, tenendosi il 50% dell’introito, mentre la royalty ricevuta dall’autore si aggira tipicamente intorno al 15-25%. L’operazione che i Radiohead hanno tentato con “In Rainbows” (vendita diretta del disco online, senza distribuzione e con prezzo scelto dall’utente) è quindi completamente fallita.
La sensazione è che le vecchie carcasse di cui parla Yorke siano riuscite, con un ultimo colpo di reni, ad aggrapparsi al nuovo mondo, al treno del web. E il discorso non può che ampliarsi all’intera società in cui viviamo, al di là delle faide interne al music business. Sì perchè la storia di Spotify è quella di un sogno, o meglio di un’illusione, ormai compromesso: la completa realizzazione di una società orizzontale, fatta di pari, che il web doveva realizzare. Sempre citando Yorke, un’entità come “Spotify ha improvvisamente tentato di diventare gatekeeper (guardiano) dell’intero processo (di distribuzione musicale)”, inserendosi all’interno della rete. Pensateci un attimo, Spotify non produce dischi, non seleziona nuove promesse, non porta avanti nessun tipo di progetto discografico: come sottolinea Damon Krukowski su Pitchfork, è solamente un aggregatore di Capitale, allo stesso modo di Pandora o di altri servizi simili, l’ennesimo modo di ottenere soldi dai clienti.
Insomma, Spotify ha lo stesso valore di una deluxe edition o di una reunion, è soltanto uno strumento per ritardare la catastrofe? Probabilmente sì, anche se bisogna ammettere che le informazioni in nostro possesso non sono ancora abbastanza: molte domande restano senza risposta e molte delle possibilità offerte da Spotify restano ancora da scoprire. Quanti degli ascoltatori in streaming compreranno l’album “fisico”? Quanti andranno ad un concerto? Qual è il confine tra necessità finanziaria e desiderio di controllo della propria opera?
Ancora non abbiamo dati a sufficienza per pronunciarci. L’unica cosa che possiamo fare è domandarci se vogliamo fruire di musica nello stesso modo con cui l’abbiamo fatto negli ultimi 50 anni o se non sia veramente giunto il momento di instaurare un rapporto nuovo, più autentico e onesto con gli artisti che apprezziamo. Se il web si piega alle vecchie regole del gioco, senza citare i tweet di Thom Yorke, tutto cambierà “affinchè nulla cambi”.
Cover Credit: James Day
premessa: non ho letto il pezzo e non so niente di spotify, a parte il fatto che la gente ne parla. qualcuno mi potrebbe gentilmente spiegare perché uno dovrebbe perdere tempo a capire cos’è spotify e successivamente usarlo se ha concluso che a qualcosa serve quando
a) posso comprare un disco a scatola chiusa come si faceva una volta, nei negozi o farmelo spedire da portland
b) la musica gratis si trova in abbondanza
c) quella che decido di comprare dopo averla ascoltata la compro
d) quella che mi piace ma non posso più permettermi perché ho finito il budget non la compro
grazie
Sono d’accordo con te sul fatto che ci sia una grande ipocrisia quando
si parla di come possiamo fruire della musica, come se dovessimo far
finta che i vecchi metodi di distribuzione non esistessero più e che la
pirateria non sia di fatto considerata legittima dagli ascoltatori. Di
fatto è proprio questo lo scopo dell’articolo: chiedersi se lo streaming
(e quindi Spotify) che ci viene presentato come “il futuro della
musica”, non sia altro che l’ennesima operazione di marketing per far
sopravvivere il vecchio sistema discografico, che ormai non genera
abbastanza profitti. Insomma, se non si spacci per rivoluzione quella
che è la semplice apertura di un nuovo canale di vendita all’interno
dello stesso sistema.
Se poi vogliamo parlare delle implicazioni che questi servizi hanno
sulla qualità dell’ascolto e del livello di attenzione e partecipazione
che richiedono rispetto all’ordinare personalmente un disco da portland,
questa è sicuramente una tematica che merita di essere approfondita.
ciao riccardo, grazie per la risposta. io considero la pirateria legittima in quanto mi sono sempre posto di fronte alla questione nel modo che ho tentato di descrivere nel mio commento precedente. ho un budget annuale che dedico all’acquisto di dischi che varia di anno in anno ed è indipendente dai fattori musicali. nello scenario pre pirateria e pre banda larga compravo meno dischi (parlo soprattutto di nuove uscite) in quanto la pratica portava con sé un rischio maggiore di beccarsi una fregatura. mi è successo spesso e così mi buttavo spesso sui classici. nello scenario post tutto si è ribaltato, come potrai ben capire.
il problema della pirateria è un altro e riguarda gli ascoltatori. l’industria discografica ha certamente perso quote a causa e per colpa della pirateria selvaggia ma questo è successo in quei settori dell’industria sorretti prevalentemente da ascoltatori deboli, assolutamente non collezioniste e del tutto integrate in un habitus culturale dove l’acquisto di un disco equivale(va) a quello di un hamburger. aspetti portanti che indirizzano le scelte di questo tipo di ascoltatori-fruitori sono essenzialmente le radio, la televisione e la stampa generalista. quando costoro hanno scoperto che potevano scaricare il disco invece di comprarlo hanno fatto l’esatto opposto di quello che è successo ai veri appassionati: hanno smesso di comprare quei pochi dischi l’anno dei soliti autori e buonanotte al secchio.
spotify prevede, a quanto ho capito, che si debba pagare per ascoltare. quindi sì, pur non conoscendolo nei dettagli, stando a quanto ho intuito, mi pare un’ “ennesima operazione di marketing per far sopravvivere il vecchio sistema discografico, che ormai non genera abbastanza profitti” e il cui target vero è palesemente il pubblico non specialistico a cui facevo riferimento poco sopra.
* collezionisti e del tutto integrati.
Che tu abbia ragione secondo me è confermato da un altro fatto, che citano tutti quando si parla di questo argomento… mi scuso in anticipo per la banalità.
la fruizione della musica dal vivo, anche quella di piccole dimensioni in cui l'”ascoltatore” mainstream è sempre venuto a mancare, resta in aumento costante (anche se il fatto che spesso sia il sostituto low cost della vacanza non va sottovalutato).
Un ascoltatore consapevole continua a generare ricavi oltre all’album, che si tratti di live, merchandising e indotto vario come possono esserlo le riviste specializzate. Le case discografiche lo hanno sempre saputo ma, come dicevi tu, finora il ricavo dalla quantità degli ascolti superava quello dalla qualità, dell’ascolto ripetuto: per questo non è convenuto a nessuno creare clienti preparati.
meglio fargli ascoltare tutto, almeno un cd per band lo compreranno e non faranno troppo gli snob…
Con napster ecc. tutto è cambiato, e infatti ora l’obiettivo è schematizzare, differenziare i generi e i rispettivi ascoltatori.
tutto questo per dire che, quando si parla di pirateria, bisognerebbe tenere conto di quanto chi scarica abbia effettivamente contribuito al fantomatico “sistema culturale”. non è facile. credo che la pirateria presenti un’ingiustizia di fondo, contro chi il contenuto l’ha creato, ma trovo ugualmente ingiusto mettere sullo stesso piano chi scarica il film pur andando al cinema una volta a settimana e chi lo fa giusto per provare la nuova tv al plasma.
Se, come sembra, è proprio necessario mercificare l’esperienza culturale, almeno cerchiamo di ottenerne qualcosa, pretendendo, per chi da di più, qualcosa in più.