Quando Instagram fece la sua comparsa al pubblico di massa si gridò alla rivoluzione delle social-photo: un modo velocissimo per applicare filtri retrò con tanto di cornice quadrata che in qualche modo richiamava le polaroid dei ruggenti nineties. La cosa che veramente caratterizzò Instagram non fu il fatto di fare foto, ma il poter lanciare il gusto dell’old attraverso l’atto stesso del fare clic e applicare i suoi popolari filtri (X-Pro, Hudson, Sierra, etc. etc.) con i quali “differenziarsi”, creare identità, mostrare il proprio gusto.
C’è chi ha attribuito a Wes Aderson il merito di aver ispirato Instagram attraverso il suo modo di filtrare la realtà; c’è chi ha sostenuto addirittura il contrario affermando che Wes Anderson fosse l’instagram del cinema (mai baggianata più grande). Si è addirittura parlato anche della generazione Instagram come fenomeno giovanile, alcune testate online hanno addirittura associato le proteste contro la Fornero (la #choosyrevolt) della generazione di giovani attribuendo ad Instagram il ruolo di amplificatore. Insomma, si è parlato tantissimo ed è stata una vittoria per il brand.
In realtà l’app Instagram ha avuto il merito anche di auto-propagandarsi attraverso sé stessa, passando per l’atto del fotografare: le persone invece di mostrare le proprie foto in quanto foto, mostravano le proprie foto in quanto scattate con Instagram e con quell’effetto caratterizzante e personalissimo: il vero focus non è il fatto di aver scattato una qualche foto paesaggistica o ritrattistica brillante, ma quella di averla scattata con quella piattaforma.
Don DeLillo in “Rumore Bianco” svela esattamente questo processo psicologico, con una maestria impareggiabile, quando i protagonisti si fermano ad osservare “la stalla più fotografata del mondo” e analizzano il comportamento dei turisti accalcati, i quali scattano foto con compulsiva nevrosi:
– Trovarsi qui è una sorta di resa spirituale. Vediamo solamente quello che vedono gli altri. Le migliaia di persone che sono state qui in passato, quelle che verranno in futuro. Abbiamo acconsentito di partecipare ad una percezione collettiva. Ciò dà letteralmente colore alla nostra visione. Un’esperienza religiosa in un certo senso, come ogni forma di turismo.
Seguì un ulteriore silenzio.
– Fotografano il fotografare
Quindi che cos’è Instagram se non un mix perfetto di self-marketing, fotografia, filtri anni novanta e gusto del retrò condito con punte di identità a carattere generazionale? Dove ritroviamo tutti questi elementi miscelati insieme ancor prima che li incanalasse Instagram? Esattamente negli anni ’90 e nel suo immaginario visivo e identitario. Un esempio concreto lo possiamo ritrovare nel packaging (la quinta “p” del marekting) e negli artworks degli Oasis, nelle loro copertine, nei loro video: non spingevano anche loro verso un immaginario retrò? Non creavano segmenti immaginifici per i nostalgici della mod’s culture? Ecco due copertine, una Earlybird e una Sutro (rispettivamente 1994 e 2000):
Per far capire meglio cosa intendo abbiamo anche un video, del 2002, “Stop Crying Your Heart Out” girato interamente in Instagram mode (con effetto Earlybird). Peccato che Instagram non era nemmeno un pensiero ai tempi:
Gli Oasis hanno incanalato la componente identitaria di Instagram su sé stessi prima ancora di Instagram: un immaginario che è passato anche attraverso questi elementi, sul loro modo di porsi, sui loro vestiti, sul revival, sui loro video, perché anche loro erano retrò, esattamente come Instagram. Come se ci fosse bisogno di un ulteriore chiarimento vi posto qui sotto una parte del booklet di “(What’s the story) Morning glory” (1995, effetto earlybird su earlybird)
Questa è la prossima copertina degli Oasis, con foto scattata da me a Roma, filtrata con Instagram (2013, Sutro):
Tutto questo per dire che le mode visive in qualche modo si rincorrono in paradigmi che oramai non fanno che auto-riprodursi inseguendo una moda o un trends, il che non ne pregiudica la bontà. Del resto, come dice Neil Leifer “la fotografia non mostra la realtà, mostra l’idea che se ne ha” e gli Oasis e Instagram non hanno idee così diverse in termini di immaginario e, probabilmente, nemmeno di realtà.