Il Sindacato di Adobe indice la prima sollevazione hipster-sindacale della storia, ma niente paura, ovviamente è solo un hashtag. Tuttavia se esplodesse davvero una specie di #RivoluzioneCreativa di quelli che non riescono a far capire alle mamme o alle zie che lavoro fanno credo che finirebbe tutto su Instagram, senza morti, feriti o editoriali su Valle Giulia.
Ma è indubitabile il successo dell’operazione. Certo, in questo caso si è giocato in casa, nei social vinciamo facile, ce la cantiamo, suoniamo, balliamo alla grande, ma c’è anche il fattore di “aver toccato un nervo scoperto”, come con il video porno di Belen.
Ovvero l’aver ridotto in un viral la rivendicazione della tutela dei diritti lavorativi e retributivi dei lavoratori creativi, che detta così sembra quasi uno scioglilingua, una supercazzola, vale a dire la giustizia sociale per i graphic qualcosa, i socialcosi e i freelance in generale, più i presunti tali, cioè i disoccupati (sì ma) 2.0.
I video sono simpatici, ben fatti, niente da dire. Onore al merito a Zero, alla pubblicità e all’interesse che sono riusciti a sollevare etc etc, ma va sicuramente detto che dietro alle buone intenzioni, che non metto in dubbio, ci sta anche una sottile patina di paraculismo che puoi grattare via con un’unghia. Cioè la ricerca di un consenso a mani basse, come quando tra amiche si parla di quanto erano stronzi i propri ex. Anche se poi alla fine loro se li sono scopati tutti a giro.
Vale a dire: chi più chi meno sappiamo con chi abbiamo a che fare. Conosciamo il problema. Ad esempio il sottoscritto entra ogni volta in paranoia quando mi chiedono cosa fa nella vita. Il web writer perché scrivo di qua e di là, il content manager dove capita, il copy perché mi invento delle cose per terzi, il grafico perché quella volta ho fatto l’artistico, e ancora il promoter perché organizzo eventi culturali e collaboro con festival e associazioni vattelapesca. E altre cento cazzate che tanto a voi non frega un cazzo e che in realtà non mi qualificano in niente.
La conosco anch’io questa merda. Il fatto di fare mille cose ma neanche una che ti dia da vivere serenamente perché quella volta non hai fatto il professionale o non sei entrato in banca. E insomma, il mio non è sarcasmo, non è disprezzo, non è che mi metto a linkare il video di Enzo Mari così, tanto per. La mia è più che altro autoironia, amara e disincantata, nel voler dire, credo, due o tre cosette, spero, sensate.
Ad esempio che il mito della creatività sta mietendo ogni anno più vittime. Uno dice il depauperamento istituzionale, morale e civile del paese, Berlusconi e tutta quella roba lì. Ma il Dams?
La retorica dei makers, l’utopia dei wwworkers, i giovani creatori di futuro e altra droga simile. È un po’ un nostro difetto di fabbrica. Magari non è che siamo del tutto scemi, è che ci hanno disegnato così.
L’essere costantemente al di sotto delle aspettative, perché le nostre aspettative saranno sempre al di sopra di qualsiasi altra possibile. Uno dei guai del sistema educativo e formativo. Lauree, diplomi e master che sono attestati di disoccupazione. La macelleria sociale che parte dalle famiglie e prosegue nelle scuole e nelle università. Molto prima della nouvelle vague dell’austerity di Monti, del Bilderberg e dei Rettiliani al potere.
Ci immaginiamo il meglio per noi che ci sopravvalutiamo e ci autostimiamo: Lake Wobegon Effect, la città immaginaria dove tutti i bambini sono sopra la media, come dice Niccolò Contessa, che dice cose giuste, con le parole giuste.
E che dire del ruolo di internet, che ci ha ingannati e ha dilatato le nostre velleità? Progetti esistenziali e professionali drogati come i teenager paninari davanti alle tv commerciali. I pischelli che non vogliono più diventare calciatori o veline ma designer. YouTuber. Trendsetter. Negli anni ’80 c’era lo spetto dell’AIDS, negli anni zero a riempire i nostri vuoti c’è l’ADSL.
Ma la verità è che non c’è più trippa per gatti. Siamo stati cresciuti con la convinzione che – quante volte l’avrete sentita – se ti fossi applicato, se avessi fatto i giusti sacrifici, prima o poi avresti raggiunto il tuo risultato, esaudito i tuoi desideri, guadagnato il tuo posto in paradiso, ma, ehi, alla fine della fiera LE-COSE-NON-STANNO-COSI’. Questo poteva valere per i nostri genitori ma non per noi, che siamo così choosy… che non ci accontentiamo di essere dei lavoratori, ma che pretendiamo di preservare il nostro statuto di sognatori.
(sicuri che al giorno d’oggi “sognare” sia esattamente un “diritto” e non un “delitto”?)
Perché il lavoro, alla fine, è semplicemente lavoro, per quanto lo vogliamo ancora caricare di valori extra (prestigio sociale e awesomeness). E se quel tuo lavoro che vuoi, anzi pretendi, non c’è, perché non ci può essere, perché non ci sono le condizioni minime di garanzia, allora nell’alzare la voce per pretendere ciò che non si può avere, si rischia di fare la figura dei pirla/piangina. Come quando Mazzarri pretende il rigore, che c’era, anche se la sua squadra fa schifo.
Ancora Contessa, che è lo stesso Niccolò che dice cose giuste, con le parole giuste, in quella canzone fa: “vedi Niccolò, la gente non è il mestiere che fa”. Appunto. La felicità non è il successo, come dice la destra. Il lavoro non è la dignità del lavoratore, come dice la sinistra. E vaffanculo.
Poiché, per quanto fatichiamo ad ammetterlo, nessuno di noi è nato per essere indiscutibilmente un artista o un genio. Può darsi che abbiamo una vocazione di un certo tipo, che abbiamo del talento, che siamo portati a inventare e a creare, e che questo ci venga occasionalmente riconosciuto, ma questa non è una buona ragione per offrire incondizionatamente l’opportunità a una generazione di fossilizzarsi su una prospettiva lavorativa-escatologica-messianica della rivalsa creativa e della superiorità sociale connaturata in un fottuto impiego artistico.
Lo status symbol cozza contro lo status quo. Che ad esempio ti suggerisce di cominciare a coltivare la terra, di farti i calli nelle mani, che poi qualche coglione, vedrai, te li compra al triplo i tuoi pomodori bio cresciuti nella Terra dei Fuochi.
Niccolò Contessa, sempre lui, quello che dice cose giuste, con le parole giuste, parla di mercato del compratore. Quella situazione in cui l’offerta supera di gran lunga la domanda. Il compratore ha il coltello dalla parte del manico: ci sono tanti soggetti disposti a vendergli quello stesso prodotto o servizio. Se non è soddisfatto del prezzo offerto dal venditore A, il compratore può rivolgersi al venditore B, C, D, e così via: in una situazione estrema il prezzo di un determinato prodotto o servizio può arrivare a essere zero.
Capito? Siamo in tanti. Siamo in troppi. Siamo i “creativi-cinesi-che-ci-fottono-il-lavoro” di noi stessi.
E chi ha bisogno di usufruire del lavoro creativo è fisiologicamente disposto a pagare sempre di meno.
E qui scatta un altro meccanismo. La gente che cerca soldi altrove. Siamo nel 2014, il grano lo si fa seguendo strade alternative. Lo so perché ci sono dentro. Ti cerchi un incubatore di start up, un coworking ben piazzato, o uno sponsor qualsiasi, oppure uno di quei bandi alla cazzo, sovvenzionati da investitori e fondazioni alla cazzo, pronti a dare soldi a pioggia, o alla cazzo, a qualsiasi trentenne un po’ eccentrico con delle idee (indovina?) del cazzo. E se non passa, beh, proviamo con la lotteria social dell’elemosina del futuro: il crowdfunding. Come i tossici che ti chiedono l’euro per il biglietto del treno solo che tu lo fai su IndieGoGo, Kickstarter o Produzioni dal Basso.
Progetti che poggiano i propri core business sulla fuffa, in nome della formula sole-cuore-amore nota ad alcuni come modello aziendale FFF: friends, family e fools. Vale a dire cazzeggio con gli amici, in nome delle nostre idee matte, grazie ai soldi di papà. Già, ottima idea di business.
(Vabbè, sappiamo che non è sempre così, non si offenda nessuno per carità. Alla fine lo sanno tutti che in questo mondo non vanno avanti i figli di papà)
Nel suo insieme il fenomeno ha come un suo ciclo, come in certi grafici del Deboscio. L’aspirazione artistica si traduce automaticamente in un pericoloso conformismo – far parte del giro – che poi pretende un riconoscimento che si traduce in rivendicazione, per alimentare la propria aspirazione artistica. E così all’infinito.
Ok, ma alla fine cosa c’è di sbagliato nel rivendicare i soldi del proprio lavoro? Niente. Andate a dirlo anche agli imprenditori che non ricevono nemmeno loro il compenso dovuto o che manco riescono a riscuotere i debiti dello Stato.
Ovvio, la precaria retribuzione del lavoro creativo è un problema sociale ed è anche una questione che va a toccare il cuore della cultura del lavoro di questo paese, cronicamente incapace di approdare nel nuovo millennio e di trovare la sensibilità sufficiente per apprendere le esigenze di una generazione che si è fatta il culo servendo ai tavoli per pagarsi il MacBook Pro e l’erba.
Mentre in cassa integrazione ci sono pure gli operai. Idraulico, giardiniere e un antennista (?!) dicono i video ribloggati ovunque. Quelli di Zero non hanno messo un metalmeccanico perché evidentemente sanno che per loro funziona la stessa formula di pagamento. Un cazzo.
È così che va, nel terzo millennio il focus si è spostato dal proletariato della fabbrica ai braccianti creativi, che in fabbrica non ci finirebbero manco morti. Sai com’è: l’overeducation.
Infine la compulsività da condivisione. Far parte della cricca di #coglioneNo. Niccolò Contessa, sempre lui, che dice cose giuste, con le parole giuste, parla di slacktivism che significa, più o meno, quando da pischello portavi la kefiah per solidarizzare con chi ti vendeva il fumo, o quando esibivi la bandiera della pace perché avevi il Che nel diario, o ancora il fiocchetto rosso dell’Aids perché quella volta Tom Hanks ti aveva fatto pena al cinema. E la foto di Sakineh, la condivisione del video di Kony, dei post di Se non ora quando, i balaclava fluo per le Pussy Riot e via dicendo fino ai giorni nostri, con la stessa logica di quando, chissà, un domani, la Corea del Nord imprigionerà e condannerà Gianni Morandi allo sciopero della fame, e allora tutti noi metteremo una merda sopra un giradischi in segno di vicinanza e solidarietà.
Sì, insomma, quella cosa lì. La volontà sincera ma soprattutto CONCRETA di cambiare il mondo in meglio attraverso AZIONI EFFICACI.
O quantomeno garantire LA FACCIATA da porgere almeno nel nostro personale social-bazar emotivo che prende il nome di Facebook.
Anche stavolta, tutta questa energia, questa rabbia, questa creatività che però non riescono a convogliare il proprio malcontento in un vettore politicamente efficace, se non in giochetti di adesionismo light, un videogame virale con quella verve pasionaria e firmataria che ha segnato le grandi imprese culturali e civili del nostro paese. Tipo, boh, l’epopea dei grillini. O i TQ, tanto per fare un esempio diverso, che dopo un paio d’anni manco sono riusciti a rinnovarsi il dominio del sito (per chi fosse interessato www.generazionetq.org).
Poi uno dice che non è vero che anche questa volta non finirà tutto in tarallucci e Starbucks.
Ora staremo a vedere come andrà a finire questo tiki-taka di massa, se i datori di visibilità continueranno a postare gli stessi video dei loro subalterni presi per il culo, se continueranno a farlo anche le pippe che hanno seguito qualche corso di InDesign per corrispondenza e che si sentono comunque chiamati in causa, o se verrà alla luce l’ennesima inutile associazione di categoria magari dalle firme accumulate su Change.org, o su Avaaz.org, un Quarto Stato, come nel quadro, capeggiato da una Giulia Innocenzi o, che so, da Fabio Novembre.
E i Wu Ming cosa dicono? Ancora non lo so, che interpellino Zizek e lo facciano in fretta perché non c’è molto tempo, poiché i sussulti politico-civili di questo paese si giocano tutto nella durata di un hot topic di [INSERIRE UNA QUALSIASI CIFRA AL RIBASSO] ore.
Infatti mi dicono che devo sbrigarmi nel terminare questo pezzo, perché l’hype scende inequivocabilmente dopo qualche giorno e tanto vale. Poi magari ci scrive qualcosa anche Quit the Doner e sono fottuto. E torneremo tutti quanti a parlare di Renzi.
Nel frattempo le home di Facebook continuano ad essere invase da post tutti uguali, cose che non si vedevano dai tempi del concorso di Leica. Il che significa non solo che forse dovrei riflettere sulle cerchie di amici che ho ma che, niente paura, anche se nel 2020 arriveremo al 73% di disoccupazione giovanile, saremo tutti comunque dei cazzo di designer.
Tutti speciali. Tutti creativi.
Un popolo di santi, poeti, navigatori e creativi. Ovviamente tutti opinionisti. Ovviamente tutte cose, competenze e talenti concentrati nelle stesse identiche persone. Che poi mettono i dischi all’aperitivo del venerdì, o al brunch della domenica o all’afteritivo del sabato, all’alba, in mezzo al vomito.
Lo so che può sembrare un quadro decadente, espressionista o stereotipato, e per fortuna che è così, perché possiamo sempre contare nella realtà, che è assai meno cupa di questo ritrattino emorragico. Tipo, che so, pensate alle facce di Letta, Alfano, la Meloni, la Serracchiani, Fassina, Colaninno, anche Capezzone non è poi così vecchio. La nuova classe politica semi-giovane, loro sì che capiscono le nostre esigenze e si faranno carico dei nostri problemi. Tipo il wi-fi libero. Ma possono stare tranquilli, perché tanto noi non scenderemo mai in piazza finché non ci mettono WhatsApp a pagamento.
Tutto questo mentre il discorso di Steve Jobs a Stanford continua a ronzarci nelle orecchie. Stay hungry stay foolish ormai suona come un Enjoy Coca Cola o un I’m lovin’ it qualunque. Uno slogan very cheap per il nostro marketing esistenziale. Insegui i tuoi sogni, Non mollare cose così. La nostra generazione cresciuta con i versi mielosi di quella canzone degli Smiths in heavy rotation nella nostra testa. Let me get what I want, etc. E alla fine dallo IED ti ritrovi a lavorare in un call center. Maledetti #creativicinesicherovinanoilmercato #dovecazzosietechevifaccioilculo.
E in tutto questo casino devi anche sorbirti i pipponi di certi lupi grigi che ancora si guadagnano la pagnotta nel sobillarci con gli editoriali motivazionali per genitori giovanilisti da Repubblica.it. Quelli che dicono che i giovani sono una risorsa, bla bla bla, le poltrone incollate sotto il culo, baronetti, presenzialisti, tuttologi e prezzemolini che timbrano il cartellino su ogni argomento. A loro, che ci dicono di coltivare i nostri sogni, va detto: “Questo non è Postalmarket. Ognuno può coltivare i sogni finché se lo può permettere“. E questa è un’amara verità del cazzo che credo nessuno possa contraddire.
Perchè, alla fine, non vorrei che ci si scordasse una cosa che si è persa tra le righe di questa campagna. Che #coglioneNo o #coglioneSì, continuare ad essere professionisti della precarietà creativa, in questo paese, non un è un fatto di prestigio ma (alla lunga) un lusso.
Perché se ci stai ancora dentro, sotto sotto, significa che te lo puoi ancora permettere.
Nella foto uno dei cartelli più rappresentativi della rivolta dei Forconi.
Gente che lavora GRATIS…se non sono coglioni questi…
Mi hanno insegnato che “dare soldi, vedere cammello”.
Mi offri un lavoro, lo svolgo, mi paghi. Facile.
So che vi è questo andazzo di non pagare per un determinato lavoro? Benissimo, ti fornisco il materiale in versione bozza/beta/sul tovagliolo/pieno di watermarks e quando mi paghi ti do il famoso file .def .
Mi offri uno stage/periodo di prova? Sono retribuiti per legge, poche cazzate.
Due volte han cercato di farmi lavorare gratis: la prima volta ci son cascato e, per quanto abbia perso tempo, non ho fornito al cliente ciò che aveva chiesto.
La seconda volta ho detto “no.”
Senza girare nemmeno un video, senza usare nemmeno un hashtag.