a cura di Seppino Di Trana e Riccardo Riccardi
Dicono che da Torino si vedano le Alpi, dicono. Entrare a Torino è come entrare in una gigantesca palla di vetro appannata dall’interno. Il grigio ti sale addosso. L’architettura industriale domina il paesaggio. Davanti alla nostra stanza, il Lingotto, un monolite urbano che si erge padrone, davanti le ferrovie, dietro, il grigio. Sabato sera, la serata finale del Club to Club, sarà lì dentro. Quale posto migliore, penso.
Il pomeriggio di venerdì inizia alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, quello che è il quartier generale di tutta l’organizzazione del Club to Club. C’è aria di attesa e di soddisfazione per quello che sta prendendo forma, il festival è iniziato giovedì e si inizia a parlare di sold-out per il seratone di sabato. Prendiamo da bere a prezzi più che onesti, con il gradevole sottofondo di due ottimi dj italiani, The taste e Srsly.
Nel frattempo sono già iniziati i live act all’interno del piccolo e intimo auditorium. Entriamo a vedere l’intensa performance di Dracula Lewis, ma non passa troppo tempo che ci rendiamo conto di non essere abbastanza nerd per reggere bassi a profusione e menate di synth a decibel sonanti, seduti comodamente su delle larghe poltrone tra gli “shhh” infastiditi di chi, non so come, riesce a sentire la tua voce. Lee Gamble ce lo vedremo un’altra volta. Altro drink e cambio location.
I Cantieri OGR sono sicuramente la location più straordinaria del festival. Le Officine Grandi Riparazioni risalgono alla fine dell’800, degli imponenti capannoni industriali dove venivano riparate ferrovie e locomotive. Restaurati recentemente offrono uno scenario unico e scegliere un posto così per far suonare gente come James Holden e Jon Hopkins significa essere dei gran fighi. Per arrivarci si passa all’interno del Politecnico di Torino, anche questo, guarda un po’, struttura imponente e autorevole. Incrociamo un po’ di ragazzi, sguardo dritto e impassibile, “scusate raga’, ma i cantieri OGR?” “Cosa? Mai sentiti!”. Alla quarta risposta simile, accendiamo l’iphone. La gente che studia, a Torino, studia tanto.
Il dj set di Holden è a dir poco trascinante. Uno di quei set che ti assorbe lentamente e ti ritrovi sotto al palco imbambolato e confuso dopo pochi minuti.
La folla, piacevolmente abbondante nonostante l’ora precoce per i malati standard italiani, è completamente in suo possesso in pochi istanti e, nelle quasi due ore in cui è dietro la console, il set segue la via maestra dura e cruda del suo stile, ma prendendo direzioni spesso inattese. Si sentono i Chemical Brothers, Four Tet e Koreless. Dubito ci potesse essere un’accoglienza migliore.
Che Jon Hopkins fosse tra i live act più attesi di tutto il festival c’erano pochi dubbi. Il “raffinato viaggio claustrofobico” di Immunity ha lasciato un segno pesante come il piombo in questo 2013 e durante il live questo peso ce lo siamo visti spiattellato in faccia con sontuosa, violenta, superba maestria.
Le meravigliose e oscure atmosfere di Immunity prendono luce, una montagna russa tra cielo e inferno davanti ai nostri occhi.
Sbigottiti, nell’ultima parte del live, Hopkins decide di prenderci a schiaffi a suon di techno, così, giusto per riportarci sulla terra.
D’altronde dopo si va all’Hiroshima Mon Amour.
Questa ex scuola elementare, è un posto talmente noto nel giro dei locali live italiani che, per chi come noi ha vissuto metà della propria vita in posti tipo Circolo degli Artisti, il solo nome non può non provocare una certa trepidazione. E poco importa se c’è la fila fuori, ne approfittiamo per rifocillarci dall’immancabile paninaro proprio di fronte l’ingresso. Entrati, ci troviamo in un vero e proprio formicaio di persone. C’è tantissima gente che letteralmente brulica tra le due sale, i corridoi che vi ci portano, l’atrio ed il cortile esterno. Il fatto stesso di riconoscere qualche volto di persone che nulla hanno a che fare con Torino in mezzo al marasma, ci comunica che questo è il vero e proprio place to be in Italia (forse in Europa) per questo week end. Entriamo e, constatato che prendere da bere sarà cosa ardua, ci buttiamo direttamente nella pista della sala principale dove ci accolgono le sonorità dubstep di Pinch che, questa volta da solo (ha suonato anche in coppia con Sherwood sia in Sandretto, sia, per il gran finale, nella sala rossa del Lingotto), cerca di trascinare, con tutto il Bristol sound di cui è capace, una pista responsiva, ma non troppo.
La vera special guest della serata, prevista per le 4:00, ma grazie a dio anticipata alle 2:30, è una habitué del festival.
La siberiana Nina Kraviz, sale sul palco e sin dall’inizio mette tutto quello che sa fare meglio a disposizione di una pista che, vuoi per il fatto che al Club to Club parecchia era la gente che non vedeva l’ora di ballare un po’ di “musica da club“, vuoi per l’incapacità della dj ad evitare di ballare mentre mette i dischi, vuoi per la sua indiscutibile avvenenza (anche l’occhio vuole la sua parte), diventa di colpo caldissima.
E lei sembra essere in totale sintonia con la folla che gremisce la sala e non smette di ballare neanche quando un piatto inizia a fare le bizze, richiedendo più volte l’intervento di un tecnico di palco. Finito l’intenso dj-set di Nina Kraviz, sul palco sale Kyle Hall ma la serata per noi piano piano si avvicina al termine, e preferiamo finirla godendoci il bagno di folla nel cortile dell’Hiroshima; dopotutto l’indomani ci aspetta il gran finale.
Sarà stata la memorabile serata del Club to Club, sarà stato il calore delle migliaia di persone danzati ed euforiche disseminate per la città tra le varie meravigliose location della sera prima, saranno stati i gelidi venti siberici di Nina Kravitz, o le infernali discese di Hopkins, sta di fatto che sabato mattina il cielo su Torino è questo, diafano e perfetto. E’ vero allora, da Torino si vedono le Alpi.
Sfruttiamo la mattinata, o meglio il primo pomeriggio, per scoprire una città viva come non ti aspetti. Ci ritroviamo in quello che era l’ex villaggio olimpico delle olimpiadi invernali 2006, in particolare all’ex-MOI. Un ampio open-space completamente riadatto a spazio espositivo e di intrattenimento. Scopriamo che negli stessi giorni del Club to Club proprio qui si sta svolgendo la nona edizione di “Paratissima”, una rassegna di giovani artisti emergenti (pittori, scultori, fotografi, illustratori, stilisti, registi, designer), inserita nell’ambito di Artissima 2013, la fiera internazionale di arte contemporanea, giunta alla sua ventesima edizione e ormai molto affermata anche a livello internazionale. Tutto questo e molto altro nella stessa città, nello stesso week-end. C’è il sole a Torino.
E’ il primo pomeriggo, il sabato del club to club inizia qui. Fermata metro Lingotto. Ancora due italiani, Sonambient e Material. La musica elettronica inoculata nel suo contesto più naturale, la città.
L’Ex Stabilimento FIAT del Lingotto è l’ambiente che più di tutti incarna l’animo urbano e post industriale della città. Il Gran Finale del festival è all’interno dell’enorme hangar Fiere. Quando arriviamo un fiume di gente ha già preso possesso degli innumerevoli metri quadri, scaldati dal sempre ottimo set di John Talabot.
L’estasiante frastuono dei Fuck Buttons trova un’autostrada davanti a sé. Il loro groove denso e pulsante è l’unico suono che può riempire la vastità dell’ambiente. Slow Focus è tra le cose più belle di quest’anno e la loro intensissima performance non è certo da meno.
L’uno-due Fuck Buttons – Four Tet è roba da restarci secchi.
Kieran entra sul palco e col suo sguardo gargoiliano si impone da fuoriclasse qual è. Sentirlo suonare è come vedere Maradona che fa i numeri con la palla da solo in mezzo al campo.Tende ad orientare tutto il live sul suo repertorio più vicino al clubbing, ma con grazia spaventosa giostra perfettamente con tutta la sua discografia, tra perle del passato e l’ottimo ultimo album.
Stare in mezzo ai subwoofer cercando di scattargli qualche primo piano è un’esperienza che ha del mistico.
Nel bel mezzo del concerto decide anche di continuare a coglionarci un po’ proiettando per mezzo secondo sul maxischermo alle sue spalle la scritta “BURIAL”, ed anche se sta storia ormai va avanti da un bel pezzo, riesce sempre a fare effetto su chi gli vuole bene.
Sceso dal palco (lo abbiamo visto sfilare via furtivo passando a bordo di un’utilitaria vicino alla fila per i bagni chimici) è il turno dei Diamond Version.
E sì, è vero, si tratta di un progetto interessantissimo di Byetone ed Alva Noto, ma il live precedente ha lasciato il vuoto dietro di sé; il pubblico ballicchia incerto, sembra lo faccia per inerzia, ma è evidente che faccia fatica a riprendersi, gli unici imperterriti sono quelli che ballano forsennati nel pulmino che sponsorizza Amore (sì c’è un pulmino adibito a mini club nel club).
Proviamo anche ad entrare nella Sala Rossa che esternamente ha tutta l’aria di essere un bunker alieno(altro club nel club), ma all’interno l’aria è irrespirabile e non ci si riesce a muovere; consultando la scaletta, dovrebbe esserci Kode 9 sul palco, ma capirci qualcosa è davvero un’impresa ardua e così decidiamo di tornare fuori.
Lo facciamo giusto in tempo, perché appena ritornati, i Diamond Version hanno lasciato il palco e sullo schermo che poco prima aveva destato stupore per la scritta Burial, adesso compare un altro dei nomi grossi di questo Gran Finale.
L’inizio del dj-set viene annunciato da una luna enorme che piano piano esce dall’eclissi, nel silenzio. Appena finita questa proiezione, il delirio.
Il duo tedesco sforna un set fatto di poche semplici cose: beat berlinese, cassa dritta, visual perfettamente orchestrato (Pfadfinderei) e, di tanto in tanto qualche incitazione alla folla (su tutti un italianissimo “fate casiiiiinoooooo”). Nulla in confronto alla raffinatezza del progetto Moderat (con tanti auguri di pronta guarigione all’infortunato Apparat), ma alla gente sembra non importare visto il macello che c’è in pista. Macello che stempera anche il panico che ci assale quando veniamo a sapere della fine delle somministrazioni alcoliche alle 3:00.
Finito il set, mentre Julio Bashmore, inizia a sfruttare l’onda lunga dei Modeselektor (anche se la sobrietà montante lo penalizza non poco), giusto il tempo di scambiare quattro chiacchiere con Sebastian Szary (non è mancata anche da parte sua una parolina buona per noi), che ci rendiamo conto che mentre nella sala principale l’acme della serata è bella che andata, in Sala Rossa è ancora impossibile stare per più di 5 minuti e quindi decidiamo che Machinedrum resterà solo una visione confusa e molto claustrofobica.
Chi come noi decide di aspettare il pur valido Ben UFO, lo fa o per devozione pura al Club to Club, o perché ha rimorchiato, o perché ha ancora una sbronza da farsi passare.
In ogni caso verso le 5:30 dopo tanto piacevole buio decidiamo di non aspettare l’accendersi delle luci, e ci riversiamo in strada. Svoltato l’angolo è immediatamente silenzio e nebbiolina.
Torino sa essere anche una perfetta camera di decompressione.