Immagino un Obama seduto su un sedia in pelle nera, ad un tavolo in mogano, sudato e contratto e che guarda un mare di carte accatastate. Foto di bambini morti accanto a dichiarazioni della Russia e dell’Iran. Si gratta le tempie con l’espressione di chi fa finta di non saper cosa fare di fronte alle centinaia di vittime del gas nervino siriano. Come al solito tocca all’America salvare il mondo, o almeno è questo quello che amano raccontarsi per lavare via il sangue dalla bandiera.
Sono giornate difficili per l’autodeterminazione dei popoli e due casi eclatanti lo dimostrano egregiamente. Ma prima di entrare nel merito delle due questioni è bene fare un po’ di lessico e riportare la definizione di “autodeterminazione” presa dall’enciclopedia Treccani:
Autodeterminazione: Principio in base al quale i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna).
I ribelli siriani non guardano affatto di buon occhio l’intervento degli Stati Uniti e dell’Occidente proprio per le sopracitate righe. Ma anche, e soprattutto, per le dichiarazioni stesse rilasciate dalla Casa Bianca, nelle quali si evinceva semplicemente la volontà di colpire “a scopo punitivo”, ma “senza alcuna intenzione di rovesciare il regime”. E quindi ci si domanda, che senso ha? Gli stessi rivoluzionari siriani rifiutano questo tipo di intervento in quanto non funzionale alla causa, anzi probabilmente è solo controproducente.
Il tentativo di rivoluzione in Siria ha un senso proprio in quanto autodeterminato, la battaglia siriana ha un perché proprio perché portata avanti dalla stessa popolazione e per il suo scopo: liberarsi da un regime. L’intervento esterno non ha davvero un senso in quanto “salvatore della popolazione”, anche perché non salverebbe proprio niente. Lo dimostra la recente dichiarazione di Putin che ha affermato che se l’Occidente attaccherà la Siria lui non ci penserà due volte a sferrarre un massiccio attacco all’Arabia Saudita: è evidente che le sorti della popolazione e il gas nervino in realtà non interessano a nessuno e che sotto c’è ben altro.
Non si sta facendo davvero un favore alla popolazione, anzi. Al massimo è una prova di forza che si vuol eseguire sulla pelle dei siriani e che lascerà Assad là dove sta. Questa guerra non è autodeterminata e le lotte, quelle vere, non sono tali senza questa componente. Altrimenti è colonialismo.
Lo stesso tipo di concetto si può applicare alle #Muslimah che hanno sapientemente risposto al gruppo femminista Femen: sappiamo tutti più o meno di cosa parliamo, questo gruppo di belle ragazze che si spogliano nude e vanno in giro a reclamare diritti per se stesse ma anche per altre. Il punto è proprio quello di sentire la necessità di “reclamare diritti per persone a noi sconosciute”: le Muslimah sono un gruppo di donne femministe Tunisine che chiedono sostanzialmente alle Femen di stare attente al modo in cui chiedono i diritti.
Lo fanno scrivendo una lettera molto eloquente (che potete trovare in maniera integrale in questo meraviglioso blog). La parte iniziale della lettera fa proprio al caso nostro:
Ehy FEMEN,
comprendiamo che per voi “femministe” bianche con atteggiamenti coloniali è molto difficile da capire, ma – SORPRESA! – donne musulmane e donne di colore possono avere la propria autonomia, e anche lottare! E parlare per se stesse! Chi se l’aspettava?
Siamo orgogliose di essere Muslimah, e siamo stufe delle vostre cazzate coloniali e razziste, travestite da “liberazione delle donne”!
La lotta delle Femen per l’emancipazione viene quindi vista come una colonizzazione, ma di tipo diverso, legata più alla dimensione dell’immaginario che a quella fisica in senso proprio (come quella che ci riporta alla mente l’attualità siriana). Ma sempre di colonizzazione si tratta.
Quello che manca in ambedue i casi è l’autodeterminazione interna: la popolazione siriana non ha assolutamente chiesto di essere bombardata, per poi addirittura lasciare invariato il regime; le femministe tunisine invece sono fiere del loro essere muslimah e fanno presente proprio il loro diritto ad essere come sono e portano in luce che anche loro stanno lottando per l’emancipazione, ma in maniera diversa.
In sostanza, non ha senso tentare di mettere il cappello in lotte che non sono le proprie. Non ha senso in Siria dato che non lo si fa senza interesse, non lo si fa in nome, per l’appunto, dell’autodeterminazione dei popoli; non ha senso con le Femen che chiedono diritti al posto delle Musliamah, che hanno la loro battaglia autodeteminata da portare avanti e che non vedono nella “nudità” una vera lotta femminista, semmai il contrario.
La verità è che in un senso o nell’altro il colonialismo non è mai finito e tenta sempre di travestirsi in qualcosa di buono, in questi due casi in una qualche forma di “liberazione”.