È un tatuaggio che nascondi ai tuoi genitori o un desiderio che non ti ammetti. Saremmo tutti dovuti nascere ingegneri, o economisti, o avvocati, poterlo credere se non altro e sentirsi, per una volta, giusti, sicuri di avere un motivo valido per farcela. Sarebbe meglio essere meno figli di puttana e più figli di qualcuno di importante, che ci possa proteggere dal rischio della disoccupazione, dalla paura di restare a casa e di quella di essere costretti a partire. Per potersi credere in prigione senza voglia di uscire, senza doversi cercare l’opportunità che ti cambi la concezione di te, o l’evidenza che non crediamo più in niente e che non ne abbiamo la possibilità. La decadenza più che una crisi è una questione di parole adolescenziali di chi non ha ancora accettato il fatto di diventare adulto. Nell’epoca dell’informazione e del dubitare ci eravamo persi la materia prima, quel gusto di disobbedire perché ne valeva la pena, più che per farlo e basta. Avere qualcosa per cui ne valga la pena avrebbe nobilitato anche le nostre storie d’amore, più che costringerle a diventare una scusa per non stare da soli.
Siamo diventati adulti anche qui, nella nebbia e nei canali, coltivando quei sogni che poi abbiamo buttato via senza sapere perché, quando la noia che pervadeva la nostra esistenza era più accettabile di potersi vivere qualcosa in più. Che non è il lavoro a dirti chi sei e neanche quello per cui ti laurei, sono le frasi di un alfabeto che ti dà due anni per sentirti libero prima di tornare nella casella lavorativa e farti una famiglia. Notturni da discoteca e da poche albe, c’era la questione della scalata al potere, degli arrivisti che imparavano dal passato senza studiare la storia. C’era il cambiare tutto per non cambiare niente e, una volta invecchiati, dimenticarsi di essere stati giovani, e complicare la vita che dovresti spingere avanti alla tua. Erano le colpe dei genitori ma che pagavano i figli senza spina dorsale, che una volta al potere avrebbero scritto le nuove tavole per metterci in ginocchio. Ma a quarant’anni non sei giovane e non sei neppure nuovo, al massimo sei un capo usato per un negozio vintage, o per gli armadi dei nonni in cui sentire quell’odore di naftalina così simile agli ospedali dove li abbiamo lasciati e dove, senza poterci combattere, saremmo finiti pure noi.
Se la rivoluzione era il brano di una canzone è vero che non l’abbiamo mai ascoltata, anche perché non ce l’hanno mai passata, perché non c’è il poeta che ti dice chi sei e che non sei solo, perché anche se ci fosse non ce ne saremmo accorti. Nella gara individuale di affermazione non c’è spazio per i migliori, solo i mediocri passano avanti e, quelli, credimi non ascoltano mai la musica buona. Alla fine la questione è solo di chi si svende meglio, di chi butta giù più roba senza pensarci. E non è neanche più una storia di minoranza, che anche se un locale è vuoto non vuol dire che sia di qualità e che la gente non capisca, almeno finché non cambia la legge del consumo. E avremmo dovuto prenderci più responsabilità, e smetterla di piangerci addosso.
La canzone per la nebbia è quell’addio dall’odore muschiato di una notte ubriaca in giro per la bassa, o per le vie del centro. Di quando, l’unico momento, non hai bisogno della bussola per capire che ti sei perso. Quando non vedere è giustificato, quando avanzare è un pericolo ma lo fai perché c’è freddo fuori e vuoi tornare a casa. A casa, sì, e potercelo dire di essere tornati per un buon motivo. Ma, più una canzone, è un ritornello, di quelli che cantano i giornali ma, per una volta, sei tu ad accettarlo.
DISEGNO DI AN ©