«Mi chiamo Peter Turner, sono nato il 3 agosto del 1975 alle ore 17, 43 minuti e 35 secondi, da Rachel e Timothy Turner, che a quel tempo avevano entrambi 27 anni, tramite un parto cesareo eseguito con successo dal Dott. Wood. Pioveva quel giorno a Fayetteville, una città dell’Arkans, ma l’aria era bollente, a quanto dicono. Ad assistere al mio primo urlo c’erano mia nonna, Margareth McCorsby e Marc LeMaitre, l’amico gay di nonna. Jacob, il marito di Margareth, aspettava fuori dalla stanza con un palloncino rosa, perché mia madre sentiva una femmina dentro di sé, e il suo essere veterano non vedeva di buon occhio Marc. Fino a un anno e mezzo, avendo comprato una quantità enorme di indumenti da bambina, mi hanno vestito soltanto di rosa, ma non credo pesi ancora tanto sulla mia autostima e, comunque, non mi ricordo. Al mio quarto compleanno, il primo di cui mi ricordi qualcosa, nonno Jacob aveva appena scoperto il giacimento di petrolio, aveva lasciato Margareth per Jodie (una ventenne di New York, di cui ancora ricordo la scollatura) e, pieno di soldi com’era, mi aveva aperto il fondo per il College che, per quanto c’era dentro, avrei potuto comprarne metà. A cinque anni Margareth si era appena risposata con Marc, con cui aveva una relazione sin dal liceo e che aveva finto per quasi cinquant’anni di essere gay per consentire a nonna una vita decente. Marc era uno scrittore e, diventato il mio quinto nonno, mi regalò un suo libro, anche se non sapevo ancora leggere. Fino a dieci anni le mie feste non avevano nulla di speciale, tranne le sbronze dei miei genitori con gli amici, e le scollature sempre diverse della amanti di nonno Jacob, che credo siano il motivo per cui non l’ho mai più visto. Ancora non sappiamo se sia morto, se sia fuggito con una donna o si rifiuti di vederci, ma era comunque un simpaticone il vecchio Jacob e i suoi regali facevano morire di invidia tutti i miei amici. La ricchezza lo rendeva più felice e Margareth lo sapeva, può essere anche che l’abbia ucciso lei per quanto ne so. Al 3 agosto 1990, quindicesimo compleanno, risale anche il mio primo rapporto sessuale. I miei si erano stancati di organizzarmi le feste ed io ero troppo impegnato a fare il ribelle per accettarli. Anna aveva due anni in più di me, ma molta esperienza in più, e dopo averlo fatto mi disse soltanto: «Buon compleanno nanetto». Due settimane dopo se ne andava in California con un certo Smith, senza farsi mai più rivedere. A sedici anni stavo con Paula, la brasiliana che abitava di fianco alla nostra villetta di Fayetteville, anche quella regalo di Jacob, che si doveva sorbire ogni volta le ramanzine di nonna Margareth sul valore metafisicamente erotico della Salsa nelle sale da ballo per anziani. Mi manca nonna Margareth, con quel suo sapore di eterna giovinezza e di eterno odio verso Jacob. Anche lei è scomparsa, ma in maniera meno romantica, due anni fa, insieme a Marc, ma erano una bella coppia, anche perché Marc, in fondo, era davvero gay e Margareth troppo piena di vita per stare da sola, forse per questo ogni anno non mi faceva il regalo. Poi con Paula mi sono lasciato, stanca com’era della mia eccessiva agitazione che si formava gli ultimi giorni di luglio, ma non ne ho fatto un’eccessiva scena, se ci dimentichiamo gli antidepressivi e l’incendiare tutte le cose che le appartenevano. Poi sono iniziate le sbronze, ai limiti della precarietà, per festeggiare l’ennesimo trapasso. È incredibile come si parta spegnendo candeline e ci si ritrovi a svuotare bottiglie in così breve tempo, da piegarsi davanti ai regali in preda all’eccitazione infantile a farlo perché sennò ti esplode il fegato. E anche l’euforia, per quel giorno così importante, cala inevitabilmente, perché gli anni non calano mai. Forse perché si cresce e ti senti più vecchio, forse perché ad agosto tutti sono in vacanza e ti ritrovi con i soliti stronzi e, in Arkansas, questo vuol dire la desolazione. Ma poi non c’è nulla di male, che alla fine ho pure smesso di ricordarmi di farmi gli auguri. Non è vero che sono schiavo dell’idea del compleanno, non ci penso mai da quando ho sposato Paula. Bzz bzz, sei ancora lì?»
Un suono metallico sveglia Peter Turner dal suo sonno, il suo telefono squilla. «Pronto? Ciao Paula, cosa c’è?». La voce dall’altra parte risponde ancora assonnata e di controvoglia: «Peter, non ne avevamo già parlato?», «Di cosa?» risponde, «Del tuo cazzo di compleanno e di quanto ancora ci stai dietro», «Perché Paula?», «Mi hai lasciato un messaggio in segreteria lunghissimo sulla storia della tua vita», «Ah, e che problema c’è?» «Cazzo Peter, qui sono le tre del mattino, ed è il 12 dicembre».