Cos’hanno in comune le terre a nord del circolo polare artico ed il cielo autunno/invernale in una città del nord a caso (prendi Torino)? Sono terribilmente bianchi.
Lo stesso bianco accecante è la base da cui i Drink to me sono partiti per il loro quarto lavoro in studio, annunciato dalla stessa band come il disco della maturità. Ed in questo senso il titolo del disco Bright White Lights appare anche come manifesto di un disco che stilisticamente gode di una coerenza non comune, quasi da concept.
Anzitutto prima di premere il fatidico play sappiate che quello che vi aspetta non è il disco consequenziale al precedente S (2012), anzi poco ha a che vederci, complice anche il cambio di bassista rispetto alla precedente formazione (torna Pierre Chindemi per far fronte all’abbandono di Carlo Casalegno). Si tratta di un lavoro molto più raffinato, in cui ci sono richiami stilistici e citazioni che poco hanno a che vedere con i lavori precedenti.
Sin dall’apertura che viene affidata ad Endless Endless (vd. Kraftwerk), brano introdotto da un accordo interminabile di synth su cui, piano piano, entrano la batteria e la voce di Marco Jacopo Bianchi che, reduce dal buon disco solista col progetto Cosmo, riesce a dare con le sue modulazioni un’impronta forte (forse la principale) a tutto quanto il disco.
In continuità c’è subito l’accoppiata Bright / Wild due brani (Bright è il primo singolo estratto) in cui il bianco si fa energia. Due brani catchy il giusto, che richiamano alla mente, senza per questo risultare “già sentiti”, certi Cut Copy o anche M83. Sensazione che ritornerà anche con Treehouse che forte del suo ritornello torna a dare quella impronta energica ad una seconda parte del disco in cui il bianco viene coniugato nella sua accezione più algida. A far da spartiacque al disco è la lunghissima Twenty-Two, che in 8 minuti e 50 dà una frenata all’energia dei brani precedenti. Qui la voce che scandisce parole con una giusta dose di riverbero su una base minimale all’inverosimile (prima ho citato i Kraftwerk, ricordate?), sembra uno squarcio su una tela di Fontana. La coda strumentale di tre minuti fa il resto.
Secret e No Treasure concorrono a fare della seconda metà del disco una parte più intimista, ma non per questo moscia, tutt’altro. Incastonate tra i due interlude White e Light alternano parti molto raffinate (molto bello il basso nella prima delle due) a sferzate quasi danzerecce (non sfigurerebbero come singoli entrambe).
Il disco si chiude con Ecstatic che, nei suoi 6 minuti e mezzo abbondanti, suona come la luce meravigliosa e fortissima descritta dalle persone tornate da esperienze extra-corporee.
Così si chiude un disco che gode di un respiro decisamente internazionale complice la raffinatezza minimale ottenuta dai torinesi lavorando per sottrazione, un lavoro che sembra una cesellatura più che una stratificazione, che ad ogni ascolto sa trasmettere una sensazione diversa, senza però tralasciare una matrice squisitamente synth-pop che ne rende picevole l’ascolto anche alle orecchie meno esercitate, permettendo così di godere di tutte le sfumature del bianco.
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42 Records, 2014