Voto: 8,5/10
“Bloom”, quarto lavoro e seguito dell’acclamato “Teen Dream” del 2010, inizia a dare concretezza alla traiettoria artistica che farà si che i Beach House siano, tra 10 anni, una di quelle band che non saranno mai cambiate, che avranno progressivamente allargato il proprio pubblico senza mai fare un netto salto di popolarità e che non avranno mai rischiato o deciso di fare musica diversa, perché un pezzo o un disco dei Beach House è una naturale combinazione di ciò che i due artisti hanno da offrire, di ciò che sono fisiologicamente portati a creare. Di una band del genere, tra 10 anni, qualcuno potrà dire di aver ascoltato uno o due dischi e di non aver mai sentito il bisogno di ascoltarne altri, ma nessuno potrà dire che abbiano mai fatto un disco brutto o qualitativamente al di sotto delle possibilità. E così reiterano per anni la stessa formula riuscendo a non diventare parodia di se stessi e questo per l’intrinseca eleganza e delicatezza del loro lavoro. Bisogna dire che è difficile che un disco dei Beach House catturi la tua attenzione prepotentemente, Bloom è infatti un disco perfetto per essere ascoltato anche mentre si fa altro, ma non per questo se ne rimane meno incantati se lo si ascolta prestando la dovuta attenzione.
La formula del rodato duo di Baltimora resta pressoché identica a quella del disco precedente, entrambi realizzati col produttore Chris Coady; batteria elettronica e tappeti di organi vintage, reverberi dreamy e detune sempre in agguato, il tutto a creare un corpo unico droney pop dai contorni non definiti, etereo e fumoso come la voce di Victoria Legrand, componente chiave del prodotto, che, in un universo musicale saturo di sussurri e litanie riverberate, spicca con linee vocali perfettamente costruite e un’espressività malinconica che la rendono inconfondibile.
Il pregio più grande del disco sono le canzoni, perfette come un cerchio, sempre in equilibrio, pur non impedendo momenti di tensione emotiva, ogni pezzo è percepito sensorialmente secondo immagini e sensazioni suggerite da un determinato verso o suono. Myth è un inizio incisivo, Wild crea un’atmosfera più dark di quanto ci si sarebbe aspettato dopo “Teen Dream”, rispetto al quale “Bloom” è sicuramente meno aperto, con meno riverberi larghi, forse leggermente più introspettivo. Lazuli, Other People, New Year rappresentano l’apice compositivo della band. Troublemaker e Wishes sono epiche, On The Sea più minimale, con il piano e la chitarra pizzicata a mo’ di mandolino. “It’s a strange paradise” ripete all’infinito la Legrand nella chiusura di Irene, che al terzo minuto si rompe nella ripetizione ipnotica di un accordo, prima di riaprirsi in un finale che lascia comunque spazio per la ghost track.
I Beach House hanno avuto il tempo dell’innocenza e quello per maturare naturalmente e per questo conservano un’identità ben radicata ed ora fanno musica pop allo stato dell’arte con la naturalezza di un respiro, consegnano ad oggi il loro lavoro più maturo e dettagliato. Un disco che te lo ascolti un sacco, veramente, che tanto stai sicuro che tra dieci anni ti viene per forza voglia di riascoltare quel vecchio album dei Beach House.
Tracklist:
- Myth
- Wild
- Lazuli
- Other People
- The Hours
- Troublemaker
- New Year
- Wishes
- On The Sea
- Irene