È sempre più raro trovarsi ai concerti di band emergenti italiane e incontrare persone che ammettano di essere lì quella sera per ascoltare l’artista di turno. Spesso e volentieri andare al circolino sotto casa o a quello un po’ più noto dall’altra parte della città diventa solo una scusa per seguire la comitiva o per partecipare all’afterparty del dopo concerto. Coi Be Forest e con l’ormai ultra-citata scena pesarese questo il più delle volte non accade. Sarà perché per gli abitanti di questa città bagnata dall’Adriatico la musica è da sempre una questione seria, per la quale dedicarsi anima e corpo: chapeau e ringraziamenti al compositore lirico nato proprio a Pesaro, Gioacchino Rossini a cui sono intitolate rassegne musicali, il conservatorio, specialità enogastronomiche e così via.
Lasciamo le arie del Barbiere di Siviglia e torniamo ai Be Forest, che dopo un tour italiano per promuovere il loro primo album, Cold, e un altro europeo per aprire i concerti dei Japandroids, sono diventati una delle realtà italiane più giovani e più seguite degli ultimi anni. Nel 2011 hanno conquistato anche la Targa Giovani Mei come miglior band esordiente e da lì in poi le occasioni per crescere e per farsi sostenere sono state numerosissime. Mentre continuano a camminare nella direzione giusta, li vediamo tornare a distanza di tre anni con il loro secondo lavoro, l’atteso Earthbeat, in cui i suoni metallici di Cold sono stati sostituiti da una magia di flauti ed arpeggi. Se in Cold potevamo leggere la necessità di raccontare attraverso parole e musica una stagione in cui non filtrava un raggio di sole neanche per sbaglio – sempre che non si voglia contare Dust con la sua atmosfera di un bel grigio perlaceo – in Earthbeat, come dopo un nubifragio, i nuvoloni neri fanno spazio ad un cielo di un azzurro tenue.
Tanto poteva colpire Cold per quella ruvidezza tipica dello shoegaze, per quell’impalcatura ritmica sostenuta da Erica sempre-in-piedi alla batteria e per la buona sintonia tra Costanza al basso e Nicola alla chitarra, quanto oggi, in Earthbeat, i Be Forest se ne discostano, per creare qualcosa di decisamente nuovo. Il filo conduttore rimane sempre la splendida voce di Costanza Delle Rose, una sirena pronta ad incantare tutti quegli avventori del mare che si trovino a passare nel suo raggio d’azione canoro. Le nove tracce che vanno a costituire il disco si caricano di un maggiore lirismo come dimostra già in apertura Totem, brano interamente strumentale, quasi un passaggio obbligato per accogliere l’ascoltatore in questa terra leggendaria che i Be Forest vanno a raccontare. Si sbarca dapprima con Captured Heart nel Nuovo Mondo di Colombo, in quel continente ancora tutto da scoprire, dove si incontrano insieme i sogni dei viaggiatori e le paure dei nativi, per poi tornare sulle proprie orme e salpare alla volta di casa, senza girarsi a scorgere chi è rimasto indietro.
Lost Boy e Ghost Dance ci riportano ancora una volta indietro a Cold, all’irrequietudine degli esordi e a quel passato nebbioso, neanche ci trovassimo nell’interland milanese a vagare in auto tra le stradine di campagna in pieno dicembre. Tra le prove più riuscite abbiamo invece Airwaves: qui la voce eterea di Costanza è perfettamente supportata dalla rimanente parte del gruppo e dalla new entry, Lorenzo Badioli che si occupa di curare i suoni digitali e i synth. A lui il merito di aver agito da collante, saldando le parti strumentali che ancora non rimiravano di luce propria. Airwaves è nostalgica come il pensiero di una giornata estiva in pieno inverno e riflette la potenza dell’impotenza. L’ardente bisogno di spiccare il volo trova ragione d’essere anche in Totem II, seconda traccia “orchestrale”, dai riverberi acquatici, mentre Colours si appallottola su se stessa così come farebbe un felino sonnacchioso, traendo la propria energia da proiezioni oniriche stimolate da una fantasia ancora infantile. Chitarra e basso anche qui seguono quell’andamento crescente che sembra contraddistinguere l’intera raccolta.
Più schiarite che rannuvolamenti in Sparkle, caratterizzata da una buona base ritmica ed atmosfere dagli aromi inebrianti in Hideway. Questo cielo minaccioso che ha incartato la domenica e che pian piano si apre su una stellata senza luna è un po’ come Earthbeat, un po’ come il bagliore che il giovane quartetto pesarese ha negli occhi, un po’ come la rassicurante certezza che ogni tanto ai concerti incontrerai qualcuno che ti dirà che quella sera è proprio lì per sentire i Be Forest e non per cercarsi nell’album di foto caricate su Facebook la domenica pomeriggio.