Per chi se lo fosse chiesto, la formazione di Sheffield guidata da Alex Turner non si è fermata a Suck it and See, che insieme ad Humbug si è confermato l’album della svolta di questa scintillante carriera, ma in questi due anni ha lavorato nella penombra, mietendo chilometri tra un tour e l’altro e continuando a scuotere chiome brillantinate alla James Dean.
Non sono bastati un patinato cambio d’immagine e delle sonorità variegate, anche se sempre più in linea con la musica pop, a definire un buon risultato, forse è questa la vera pecca di AM, la nuova creazione degli Arctic Monkeys che potrete trovare nei negozi e ascoltare in rete a partire da oggi.
Una volta c’erano quattro spauriti, ma talentuosi ragazzi inglesi capaci di battere il record di vendite con il loro disco d’esordio e di superare gli inarrivabili Oasis, mentre oggi non sono rimasti che dei fotogrammi ingialliti che li vedono avvolti nei loro parka e in cappottini attillati dai bottoni argentati. Vittime consapevoli della moda del momento e di quest’impellente necessità di trovare rimandi ad epoche e generi in contrasto tra di loro, gli Arctic Monkeys per il loro quinto album hanno maturato l’idea di attingere da un bagaglio ricco di esperienze per creare un nuovo sound, che ad un primo ascolto è privo della contaminazione dei riff chitarristici a loro cari fino ad Humbug: e lo sarà anche ad un secondo e terzo ascolto.
I veri protagonisti di AM sono i cori e le sovrapposizioni di voci che riecheggiano in ognuna delle dodici tracce, da Do I Wanna Know? a Snap Out of It, passando per One For the Road con Josh Homme dei Queens of the Stone Age in veste ufficiale di cantante. Tanti gli influssi, si va dalla psichedelia anni ’70 al rap 90’s e non mancano i classici richiami all’amore, soprattutto verso quelle belle donne dal due di picche facile o dall’adolescenza difficile a cui ci ha abituato Turner nei precedenti dischi. Più momenti per dimenare i fianchi, per battere le mani e tenere il tempo e meno quelli per concedersi la lirica di una ballata alla She’s Thunderstorms, eccetto gli isolati casi di No.1 Party Anthem e Mad Sounds, dal languore nostalgico, ma finemente tracciati insieme ai sospiri di I Wanna Be Yours, più che altro un arrivederci.
Alzare il volume dell’autoradio nell’assolo di Arabella vale ancora la pena, qualitativamente parlando le Scimmie Artiche sono cresciute e hanno fatto tesoro dei numerosi input che la West Coast ha saputo loro dare, soprattutto per quanto riguarda la ritmica e la centralità che finalmente sono riusciti a dare alla batteria, ma è la parte più british a venire meno, quella più ruvida che li ha fatti conoscere al pubblico. Rimane R U Mine?, cicatrice di quell’inconfondibile stile passato che combina magistrale capacità tecnica alla più animalesca voracità primordiale. Sono i suoni che vengono direttamente dal petto ad aver portato quei quattro visini puliti in auge, mentre quello che oggi è possibile vedere consiste in un esperimento in laboratorio, che solo a tratti può dirsi ben riuscito.
Questo non vuol dire che potenzialmente non siano tra i migliori sul mercato mondiale, ma non basta avere le primizie di stagione per essere Gordon Ramsay. Ci piace, però, continuare a credere che siano incapaci di deluderci una volta incrociati i loro sguardi sul palco: l’attesa è live il 13 Novembre venturo al Filaforum di Assago.
Domino, 2013
Tracklist:
- Do I Wanna Know?
- R U Mine?
- One For the Road
- Arabella
- I Want It All
- No. 1 Party Anthem
- Mad Sounds
- Fireside
- Why’d You Only Call Me When You’re High?
- Snap Out of It
- Knee Socks
- I Wanna Be Yours
io non mi ritrovo affatto in questa recensione per due importanti motivi:
1- la frase rappresentativa “Idee in un calderone senza una chiara collocazione” è quanto di più sbagliato si possa dire di questo album che, sicuramente, ha in se tante idee musicalmente diverse ma non sono affatto confusionarie anzi nel complesso l’album ha una linea generale, uno schema, ben preciso e coerente.
2- recensire un album facendo riferimento a quelli passati o alla loro immagine è un grosso errore, specie in una band quale gli arctic monkeys che non ha mai mostrato un solo volto ma si è costantemente rinnovata. Ogni lavoro merita di essere giudicato oggettivamente e come opera a se stante.
Gli arctic non sono più quelli di Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not e questo lo sanno tutti da tempo. Dunque?
Anch’io mi sento di dire qualacosa di diverso. Secondo me è un disco coerente dall’inizio alla fine, con un sound ben preciso, e personalmente è una delle poche cose che non mi hanno annoiato in questo 2013: il rap ha da sempre ricercato un attitudine rock, ma il rock che prenda l’hip hop lo gira e rivolta fino a farne il suo schiavo al punto quasi da non riconoscerlo non m’era mai capitato.
Per fortuna perché era invece molto più scontato il precedente Suck It and See.
Questo nuovo Am è potente e visionario, e semplice al tempo stesso. Geniale ad ogni ascolto